Il telefono vibra. Una notifica: "Oggi è il compleanno di Lucia. Vuoi augurarle buon compleanno?" Facebook non sa che Lucia è morta sei mesi fa. L'algoritmo continua imperterrito la sua routine, ignaro che dall'altra parte dello schermo c'è qualcuno che vorrebbe urlare all'universo digitale che no, non può più augurare buon compleanno a Lucia. Non in questo mondo, almeno.
Benvenuti nell'era dei fantasmi digitali, dove i morti hanno una vita online più attiva di molti vivi e dove l'eternità si misura in gigabyte di memoria cloud.
L'immortalità involontaria del digitale
Prima del digitale, i morti stavano nei cimiteri, nelle foto sbiadite, nei ricordi. Avevano la decenza di essere assenti. Ora invece eccoli lì, sorridenti nella foto profilo, con lo status che dice "Al mare!" scritto tre estati fa, con l'ultimo accesso che rimarrà cristallizzato per sempre alle 15:47 di quel maledetto giovedì.
Il digitale non conosce la morte. Per lui, un profilo inattivo è solo un utente che non si logga da un po'. Continua a suggerire "Persone che potresti conoscere" includendo chi non puoi più conoscere. Ti ricorda di augurare buon anniversario a una coppia di cui uno non c'è più. Ti mostra ricordi di "5 anni fa" dove eravate tutti insieme, ignaro che quel "tutti" si è ridotto.
WhatsApp: il museo delle ultime parole
C'è qualcosa di straziante nel vedere "ultimo accesso" che non si aggiornerà mai più. È come guardare un orologio fermo: sai che il tempo per quella persona si è fermato lì, in quel preciso istante digitale.
La chat rimane aperta. L'ultimo messaggio - magari un banale "Ok, ci vediamo dopo" - diventa improvvisamente carico di significato. Era l'ultimo. Se l'avessi saputo, avresti scritto altro. Avresti detto "ti voglio bene" invece di inviare un'emoji. Avresti chiamato invece di messaggiare.
Alcuni continuano a scrivere in quelle chat. Messaggi che sanno non riceveranno risposta. "Mi manchi". "Oggi è successo quella cosa che ti avrebbe fatto ridere". "Non è giusto". Le spunte rimangono grigie, testimoni silenziose di conversazioni diventate monologhi.
I social media: mausolei involontari
Facebook è diventato il cimitero più grande del mondo, con milioni di profili di persone decedute. Instagram conserva le loro ultime storie, Twitter i loro ultimi pensieri, LinkedIn le loro ambizioni professionali mai realizzate.
E poi ci sono i tag. Quelle dannate foto di gruppo dove l'algoritmo riconosce ancora il volto e suggerisce di taggare qualcuno che non può più essere taggato. Le foto del matrimonio, del compleanno, della gita. Tutte lì, a ricordarti com'era prima del prima.
Il dilemma del cancellare
Rimuovere qualcuno dai contatti sembra un tradimento. È come ammettere che è davvero finita, che non c'è più possibilità di comunicazione. Eppure tenerli lì, vedere il loro nome ogni volta che scorri la rubrica, è una piccola pugnalata quotidiana.
Cancellare le chat? Impensabile. Sono le ultime tracce, le ultime parole, gli ultimi emoji scambiati. Anche se occupano spazio. Anche se non le rileggerai mai. Anche se quando per sbaglio le apri, ti senti male.
E poi c'è la questione delle password. Accedere ai loro account per chiuderli sembra una violazione. Non accedere e lasciarli lì, fantasmi digitali eterni, sembra abbandono.
La crudeltà degli algoritmi
"Ricordi di questo giorno": eccoti insieme, sorridenti, ignari di quello che sarebbe successo. L'algoritmo non ha tatto. Non sa che quel ricordo è una lama. Pensa di fare cosa gradita, ricordandoti quanto eri felice quel giorno.
Le app di musica continuano a suggerire "Perché hai ascoltato questa canzone con..." senza sapere che quel "con" non esiste più. Netflix chiede se vuoi continuare a guardare quella serie che guardavate insieme. Google Photos crea album automatici con il volto di chi non c'è più.
I messaggi vocali: capsule del tempo dolorose
Forse la tortura più raffinata sono i messaggi vocali salvati. La voce. Quella voce che non sentirai mai più dal vivo, catturata in pochi secondi di audio compresso. La ascolti e riascolti. È lui, è lei. Ride, si arrabbia, racconta qualcosa di banale. È vivo in quei secondi. Poi il messaggio finisce e il silenzio è assordante.
Alcuni li salvano su cloud multipli, terrorizzati di perderli. Altri non riescono ad ascoltarli. Stanno lì, nella chat, piccole barre audio che contengono universi di nostalgia.
Il paradosso della presenza assente
Il digitale crea una forma nuova e crudele di presenza/assenza. La persona non c'è, ma le sue tracce digitali la rendono onnipresente. È morta ma continua a esistere online. È assente ma sempre accessibile con un click.
Questo limbo digitale può rendere più difficile il processo di elaborazione. Come fai ad accettare che qualcuno non c'è più quando il suo profilo è lì, identico a com'era quando era vivo? Come fai a dire addio a qualcuno che sembra sempre a portata di messaggio?
Strategie per convivere con i fantasmi digitali
Non esiste un modo giusto per gestire l'eredità digitale di chi non c'è più. Ognuno trova il suo equilibrio tra conservare e lasciar andare. Alcune possibilità:
Creare rituali digitali: Alcuni scelgono date significative per rivedere foto e messaggi, trasformando il dolore casuale in un momento di ricordo consapevole.
Trasformare i profili in memoriali: Facebook permette di trasformare i profili in pagine commemorative. Non è per tutti, ma per alcuni diventa uno spazio di condivisione del ricordo.
Backup selettivo: Salvare le cose davvero significative (messaggi importanti, foto speciali, vocali particolari) e lasciar andare il resto può essere liberatorio.
Permesso di non decidere: Non c'è fretta. I fantasmi digitali possono aspettare. Quando e se sarai pronto, potrai decidere cosa fare.
Accettare l'ambivalenza: È normale volere contemporaneamente cancellare tutto e conservare tutto. È normale trovare conforto e dolore nelle stesse tracce digitali.
La tecnologia non è il nemico
I fantasmi digitali possono fare male, ma possono anche consolare. Quella voce salvata può essere una tortura o un conforto. Quelle foto possono essere lame o carezze. Il digitale ci offre una forma di permanenza che le generazioni precedenti non avevano. Se questo sia un dono o una maledizione, dipende da come lo viviamo.
Un nuovo tipo di eternità
Forse dobbiamo accettare che nell'era digitale, la morte ha assunto forme nuove. I nostri cari continuano a esistere nei server, nelle cloud, nelle memorie dei telefoni. Non è vita, ma non è nemmeno completa assenza.
È un nuovo tipo di permanenza con cui stiamo imparando a convivere. Non abbiamo ancora sviluppato i rituali culturali per gestirla. Siamo la prima generazione che deve elaborare il lutto in presenza di fantasmi digitali così vividi.
Un invito alla gentilezza digitale
Se stai leggendo questo e lotti con i fantasmi digitali di qualcuno che ami, sii gentile con te stesso. Non c'è un manuale per questo. Non c'è un tempo giusto per cancellare o conservare. Non c'è un modo corretto di gestire le notifiche che continuano ad arrivare per qualcuno che non può più leggerle.
I fantasmi digitali sono parte del paesaggio emotivo del lutto moderno. Possiamo imparare a conviverci, a renderli meno spaventosi, forse persino a trovare in loro una strana forma di conforto. Ma ci vuole tempo. E nel frattempo, è ok se vedere "online 3 anni fa" ti spezza il cuore. È ok se non riesci a cancellare quella chat. È ok se continui a mandare messaggi che non riceveranno risposta.
Il digitale ha cambiato la morte, ma non ha cambiato l'amore. E l'amore trova sempre il modo di esprimersi, anche attraverso uno schermo, anche verso qualcuno che non può più leggere i nostri messaggi ma che continua a vivere nei nostri cuori analogici.
Per una consulenza sono disponibile ai contatti in evidenza o al link in bio: https://linktr.ee/dottgiampaolo
Il Dott. Francesco Giampaolo è psicologo iscritto all'Albo degli Psicologi del Lazio (n° 30933) e istruttore certificato di Mindfulness. Riceve a Roma e online, adolescenti ed adulti, specializzandosi nel supporto a chi affronta ansia, stress, disregolazione emotiva e processi di elaborazione del lutto.
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