Trasfert e Controtransfert

“Risulta difficile definire un concetto [transfert] che lì per lì sembra tutto e dopo è soltanto un’ombra che sparisce quando crediamo di averla afferrata”.
Turillazzi Manfredi S. (2006), Il transfert dai nostri giorni a Freud, Rivista di Psicoanalisi vol. LII, 351-397.


Considerazioni sullo sviluppo storico di questi concetti


Sempre ammettendo che sia fattibile una storiografia affrontata dall’interno della psicoanalisi- “ufficiale” la chiama Mario Rossi Monti in un articolo che ritengo ancora inedito- vorrei prendere in esame come si sono sviluppati i concetti di transfert e di controtransfert, a che cosa si riferiscono, e poi qual è il loro valore terapeutico.
Ritengo un excursus storico imprescindibile per affrontare un tema così complesso e, per affrontarlo, mi rifaccio in particolare a questi due recentissimi articoli, quello di Stefania Turillazzi Manfredi citato in exergo e quello di Rossi Monti: Paula Heimann: Controtransfert e dintorni.
Rossi Monti, come fa d’altronde sempre Franco Borgogno, sottolinea come la psicoanalisi sia nata e cresciuta in un sistema chiuso dove gli psicoanalisti formavano una cerchia ristretta con una forte identità centrata sulla psicoanalisi, per cui tutto ciò che non era psicoanalisi, anche parti della storia personale dell’autore preso in esame, venivano eliminati. Questa linea di pensiero ha riguardato tutti i concetti principali di tale disciplina: l’inconscio, i meccanismi di difesa, il transfert, e il controtransfert. Si è arrivati a un punto tale per cui quello che veniva detto non era più neanche vero, nel senso che è fenomeno normale che quando si incontrano la ricostruzione razionale di una scoperta con il vissuto della scoperta, la parte emotiva dell’autore prevale su quella razionale; per cui poi si ha un riassetto razionale che porta il cammino tortuoso proprio di ciascuna scoperta in una via con tratti dritti e con cambiamenti di direzione bruschi e netti.


Per contrasto la psicoanalisi, anche se ha creato un suo specifico universo concettuale, si serve continuamente di categorie e strumenti che non sono esclusivamente psicoanalitici. Comunque il lascito di Freud (il quale è giunto a conclusioni grandiose grazie alla propria curiosità e ad interessi altamente eterogenei) ha diffuso una “consegna” tale per cui è implicito il diffondere, ma anche e soprattutto il difendere la psicoanalisi. Ritorniamo al nostro excursus storico.
Iniziamo con la domanda cardine e cioè che cos’è il transfert.
Faremo un excursus storico-teoretico da Freud ai nostri giorni.
Già nel 1882 egli è sorpreso dalla descrizione di Breuer della reazione di una sua paziente. Ciò stimola l’interesse di Freud e il transfert viene citato negli “Studi sull’isteria” riferito agli ostacoli che si presentano per il proseguimento della cura: le emozioni legate a questo transfert erano di fatto sgradevoli e dolorose. Quando l’analista, però, riconosce che i sentimenti legati al suddetto fenomeno derivano da sentimenti del passato del paziente (“falsa connessione”), la cura può progredire; sembra pertanto che il transfert venga inteso come una forma di resistenza (anche nell’Interpretazione dei sogni). Essendo concettualizzato come resistenza ha un valore relazionale, per cui possiamo già affermare che la comparsa e le caratteristiche del transfert dipendono in gran parte dall’atteggiamento e dalle modalità di intervento dell’analista.
Da un punto di vista metapsicologico il transfert (nell’Intepretazione dei sogni) è inconscio; deve perciò legarsi a qualche cosa di preconscio per arrivare alla coscienza, trasferendosi in lei. Pertanto a questo punto esso è uno spostamento. Da ciò deriva un elemento fondamentale per capire il transfert: ciascun elemento che il paziente comunica è inteso come un’idea inconscia trasferita, appunto, a qualche cosa di preconscio: l’analista. Se si “accetta” quanto fin qua detto ne deriva consequenzialmente che tutta la cura si basa sul fenomeno del transfert.


Nel 1901, nel caso Dora, Freud cerca di ridefinire il transfert. Questi è oramai prodotti degli impulsi e delle fantasie che si risvegliano durante l’analisi. La singolarità del transfert è che questi sono trasferiti sulla figura dell’analista rispetto alle persone che fanno-avevano fatto- parte della vita del paziente. Il transfert diventa quindi la relazione attuale con l’analista.
Altro elemento importante è che Freud, pian piano, si rende conto che ad essere trasferiti-spostati non sono solo emozioni-sentimenti, ma anche i fatti: cose che sono avvenute. Nel post scriptum di Dora, Freud si rammarica per non aver tenuto in debito conto il fenomeno del transfert, afferma che attualmente non vi sono nuovi sintomi, ma che non esclude che ve ne potranno essere in futuro. Viene così introdotta la nevrosi da transfert, cioè la nevrosi in funzione della cura: quando il paziente sviluppa il transfert, i sintomi cessano (vedi Dora), e si sviluppano emozioni del passato, ma applicate all’analista nel momento presente.
I contenuti del transfert inoltre possono rimanere invariati rispetto al passato, ma anche variare, in quanto è la relazione paziente-analista l’elemento centrale per cui variano perchè utilizzano qualche caratteristica reale dell’analista.
Se ci fermassimo a questo punto non potremmo che derivarne che il transfert non è che un caso particolare dello spostamento dell’affetto da un soggetto ad un altro. Quindi fin qui è un fenomeno che è presente in ciascun caso che, come con il sintomo, trovatane l’origine smette di esistere. A partire dal 1900 la scoperta del complesso di Edipo riordina tutti i concetti teorici: a questo punto la traslazione diventa una “riedizione” dei sentimenti del bambino di amore per il genitore del sesso opposto, di odio per il genitore dello stesso sesso. Pertanto, in questo momento, il transfert non è fondato su un rapporto reale.
Sarà però nella Dinamica della traslazione (1912) che possiamo trovare una sistematica esposizione del concetto. Egli fa qui una distinzione fra il transfert positivo (è il paziente che cerca aiuto, che confida nell’analista, che si sente compreso) e quello negativo: il primo sarà più avanti per Freud il motore dell’analisi.


Perché?
Perché il transfert positivo è alimentato dalla libido che è in grado di diventare cosciente. Se quindi consideriamo sotto questa luce il transfert positivo, tutto quello che avviene in analisi sotto forma di transfert positivo è ciò che permette al paziente di collaborare con l’analista alla cura (e anche viceversa ovviamente). La libido inconscia dà origine al transfert negativo e a quello non sublimato. Il secondo è caratterizzato da aspetti non risolti della struttura edipica che pertanto compaiono nell’analisi come resistenza; anche il primo compare come resistenza ed è presente quando si trasferiscono impulsi direttamente ostili. Quando inizia ad agire la resistenza (per esempio trattenendo le associazioni), allora è il punto in cui comincia a comparire il transfert.


In Ricordare, ripetere, rielaborare (1914) Freud afferma che l’elemento fondamentale della cura è la trasformazione della nevrosi del paziente in una nevrosi di traslazione in quanto quest’ultima può essere curata. Si ottiene così una malattia artificiale, una zona di transizione tra malattia e vita reale, che però è anche un’esperienza reale. Freud arriva a questo concetto affermando che il transfert è fondamentale in quanto il paziente non può dire-fare nulla riguardo al rimosso, questo può essere analizzato soltanto tramite il ripetere, e questo ripetere è reso possibile dall’esistenza della traslazione. Il paziente attuerà questo spostamento dalle figure importanti della propria vita passata a quelle presenti in quel momento e per lui fondamentali; in altre parole il transfert è caratteristico in tutte le relazioni della vita del paziente. In questo momento il transfert è resistenza solo in quanto non è ricordo. Quello che prima era ricordo ora è ripetizione. Il transfert quindi è un presente che porta ad un passato che non si vuole ricordare.


Nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-17) Freud afferma che l’infermità del paziente non è qualche cosa di statico, ma di vivo, per cui quando il trattamento ha raggiunto un certo controllo sul paziente, quello che succede è che l’infermità si unificherà e si centrerà nella relazione con l’analista.
La nevrosi attuale è creativa, non è statica, non è una ripetizione cieca degli avvenimenti del passato: “…non è inesatto dire che non si ha più a che fare con la precedente malattia del paziente, bensì con una nevrosi di nuova formazione, profondamente trasformata, che sostituisce la prima. Tutti i sintomi del paziente hanno abbandonato il loro significato originario e hanno assunto un nuovo senso, che consiste in un rapporto con la traslazione...”.
E ancora: “…l’inclinazione alla traslazione dei cosiddetti nevrotici è soltanto un accrescimento straordinario di questa caratteristica universale”.


Nell’ultimo e penultimo capitolo dell’Introduzione alla psicoanalisi Freud sembra portare alle estreme conseguenze la nevrosi di transfert: il transfert positivo sarebbe il collaboratore silenzioso dell’analista. Così si va scoprendo l’inconscio fino ad un punto in cui il transfert cessa di essere docile, ha occupato il campo della cura come resistenza. Via via che procede l’analisi la malattia cambia bruscamente di senso, riferendo a questo punto tutte le sue manifestazioni alla relazione tra paziente ed analista. La cura di questa nevrosi artificiale coincide con quella della nevrosi primitiva. Quindi negli ultimi anni della sua vita, Freud era giunto alla conclusione che l’obbiettivo del trattamento non è più il ricordo, bensì la risoluzione del conflitto con l’analista. A questo punto quello che è strutturante è il presente e il presente si concentra nella relazione terapeutica; il “qui adesso e con me” viene ad assumere la posizione centrale.


Il conflitto con l’analista è continuo?
E’ giusto che l’analista riconosca di essere un oggetto importante per il paziente, ma egli deve anche ammettere che via via che l’analisi procede smetterà di esserlo ed altri oggetti prenderanno il suo posto. La situazione analitica è una situazione di privazione, questo spingerà il paziente a cercare soddisfazioni al di fuori. In questo fuori avrà delusioni transferali che dovranno essere analizzate.
In Analisi terminabile e interminabile Freud non usa più il termine nevrosi di transfert e afferma che il paziente stesso non può portare tutti i suoi conflitti nel transfert, come l’analista non può utilizzare la situazione transferale per riattivare tutti i conflitti nei quali il paziente può arrivare ad essere coinvolto. Nel Freud più maturo la nevrosi del paziente si manifesta inevitabilmente in altre aree al di fuori e queste aree devono essere investigate nella terapia. Di fronte a Freud dobbiamo dire che, dopo di lui, troveremo solo commenti su quanto ha scritto. In genere gli autori dopo Freud si dedicano ad elaborare segmenti delle teorie freudiane, modelli particolari che valgono a spiegare singoli problemi.


Del dopo Freud, ma relativamente, vogliamo ricordare Ferenczi. Prendendo come spunto il caso Dora, egli sostenne (1923) che il transfert non è che uno dei molteplici modi dell’inclinazione del nevrotico allo spostamento e che la psicoanalisi funziona come catalizzatore nella produzione del transfert. Egli inoltre riconobbe che la personalità dell’analista è un fattore importante, mettendo in rilievo la sua empatia, la sua disponibilità a mettersi in gioco, il suo rispetto per le qualità del paziente e in primo luogo la creatività del paziente. D’altronde, come sottolinea Martin-Cabrè (1997), Ferenczi non ha mai rotto con le idee di Freud, ma le ha sviluppate; Freud, ad ogni modo, da una parte desiderava che la psicoanalisi fosse accettata nel campo della scienza, dall’altra si opponeva alla sua sistematizzazione. E’ grazie ad alcuni psicoanalisti (Molinari, Carloni e poi soprattutto Borgogno) che in Italia abbiamo assistito ad una rivalutazione della posizione originaria di Ferenczi nella storia della psicoanalisi.


Dopo Freud, molti suoi seguaci furono tentati dalla sistematizzazione. Uno di questi fu Reich (1933) che, nell’analisi del carattere, sottolinea come, all’inizio dell’analisi, il punto fondamentale sia quello di riconoscere il transfert negativo nascosto da atteggiamenti positivi. Rado (citato da Turillazzi Manfredi) criticò la procedura di riportare al passato ogni comportamento, soprattutto quelli ostili all’analista;
in questo modo si ignora il disagio del paziente nel setting. Rado poi, invece di provocare una regressione in analisi, rivalutava le risorse del paziente perché potesse riconquistare la propria autostima.
Rispetto al transfert le differenze più sostanziali tra Anna Freud e Melanie Klein sono che quest’ultima ritiene che l’atteggiamento ostile del bambino verso l’analista esprima il suo transfert negativo. Anna Freud invece sostiene che il bambino non possa sviluppare una nevrosi di transfert perché i rapporti parentali non sono per lui il passato da rivivere, ma la realtà emozionale del momento.


Man mano che nel corso del tempo la terapia assume come proprio campo privilegiato il transfert, le relazioni d’oggetto diventano determinanti. La possibilità di fare un transfert formerebbe il discrimine, secondo Jung, fra nevrosi e psicosi (poi rivelatosi infondato). Federn infatti nel 1943, per primo, dimostrerà che anche gli schizofrenici producono un transfert sia positivo che negativo. Il sospetto che le aspettative dell’analista influenzino le produzioni del paziente sono risapute, così come variano a seconda del periodo storico-gruppo di appartenenza. Un buon esempio è la formazione del Super-Io: il gruppo di Vienna lo ritiene una risoluzione del complesso edipico, gli inglesi lo attribuiscono alla lotta introiettiva e proiettiva. I primi riterranno il transfert la proiezione dei genitori amati o temuti durante la fase edipica, i secondi la proiezione della madre buona o cattiva. In conclusione, secondo la Turillazzi Manfredi, si può ritenere che il fenomeno esclusivamente analitico non è il transfert di per sé, bensì la sua gestione per mezzo dell’interpretazione.
La suddetta ritiene che non si possa parlare sul piano clinico di un tipo particolare di transfert, perché abbiamo sempre a che fare con più transfert, o meglio con molte componenti del transfert che sono più deboli. Questa area transferale polifonica sollecita naturalmente una reazione controtransferale altrettanto polifonica.


Per un excursus storico è da prendere in considerazione, oltre che Freud, Ferenczi, Klein, Winnicott, Bion, anche Harold Searles. Intendiamo qui prendere in considerazione il suo scritto: ”Two suggested revisions of the concept of tranference. Comments regarding the usefulness of emotions arising during the analitic hour”. Redatto fra il 1947 e il 1948 questo scritto vale la pena di essere preso in considerazione, prima di tutto per un interesse storico: il suo dedicarsi ai sentimenti del terapeuta e il farlo negli anni in cui stava fiorendo una nuova attenzione verso la risposta affettiva dell’analista, elemento che per l’autore si manifesta in molti modi e con un ampio ventaglio di emozioni (Winnicott 1947; Racker 1948; Heimann 1949; Little 1951) dopo che per due decenni o più il controtransfert era stato messo a latere, nonostante le incisive annotazioni di Ferenczi dal 1919 fino al 1932, e poi del suo allievo Balint (1939). Va anche sottolineato l’interesse di Searles per le componenti proiettive del transfert: poiché le domande sottese concernono tali componeneti vale la pena che sia preso in considerazione.
Ci riferiamo a domande tipo: “Ma che cosa fa l’analista per destarle?”, “Quali spunti reali sta offendo al paziente a conferma delle sue tendenze transferali?”. Per questi due elementi centrali del transfert (la proiezione e l’essere stimolati dall’atteggiamento emotivo attuale dell’analista), “si tratterebbe quindi di fenomeni che implicano distorsioni solo quantitative e non qualitative”.
E ancora: “Ho spesso sperimentato … che ogniqualvolta affiora un fenomeno transferale è possibile ottenere abbondanti prove non solo della sua origine nella vita familiare caratterizzante l’infanzia del paziente, ma anche della proiezione di qualche atteggiamento emotivo del paziente stesso; atteggiamento che è parte molto attiva del suo funzionamento, del suo corredo emozionale adulto, ma che il paziente, nel momento in cui il fenomeno transferale si manifesta, esclude dalla coscienza”.


In questo scritto vengono citate fra le altre: la partecipazione del contesto, incluso il contesto di cura, alla sanità e alla follia; la reciproca influenza verbale e non verbale fra paziente ed analista che può riproporre, se non monitorata, i modelli internazionali passati alla base della psicopatologia del paziente; la sua vivida esplorazione dei dialoghi analitici nella seduta, con enfasi sulla comunicazione e rapporto interpersonali e quindi sulle identificazioni proiettive bipersonali presenti nella conversazione; l’invito infine a dichiarare con pacatezza ed equilibrio non i fatti del proprio privato, ma i sentimenti e i pensieri che sono sorti all’interno della relazione; valorizzazione quindi dell’hic et nunc della situazione terapeutica. D’altronde già Freud aveva inteso per “traslazioni non solo riedizioni di un gran numero di esperienze psichiche passate, ma anche come relazione attuale con la persona del medico”. Questo ultimo tema era già stato messo in evidenza dalla Little e da Winnicott, ma anche la stessa Heimann finì per riconsiderarlo. Essa, dal 1970 in poi, si soffermerà più volte sulla necessità che l’analista riferisca al paziente anche i suoi accadimenti mentali ed emozionali nati nell’hic et nunc, e ciò al fine di mostrargli da dove sorgono le sue interpretazioni e farlo, così, sentire un partner esistente e rilevante nella coppia.


Non si dimentichi inoltre che questo scritto si discosta da quella che era la tendenza culturale Nord Americana dell’epoca, e cioè analogie e metafore prese dalla fisiologia e dalla fisica; Searles all’opposto sembra già immerso in un’area ben diversa, quello che nel giro di un anno lo porterà al Chestnut Lodge.


Recentemente si è sempre più sviluppata la riflessione sul cosiddetto “analista reale”. In questo ambito sia Sandra Filippini (1992), che Stefania Turillazzi Manfredi, affrontano il tema del transfert riguardo al genere sessuale dell’analista e del paziente. Ovviamente gli autori che vedono l’analista come uno schermo bianco non ritengono che tutto questo abbia una rilevanza: per loro l’analista reale non esiste proprio. Altri invece ritengono che non sia di per sé il genere dell’analista ad avere importanza, bensì il significato che il paziente gli attribuisce.
Una nuova attenzione è stata portata recentemente sull’odio nel transfert.
Secondo Gabbard (1991) si possono distinguere due categorie: il paziente può riconoscere l’odio come una distorsione da analizzare, in questo caso i sentimenti di odio sono egodistonici e il paziente mantiene un’alleanza terapeutica con l’analista cercando di capire i propri sentimenti invece che agirli, oppure scompare la qualità “come se” e l’analista è un individuo veramente malevolo che merita odio. Come regola generale la forma benigna di odio nel transfert è caratteristica di pazienti nevrotici, mentre l’altra nei borderline.
Queste considerazioni sono clinicamente utili, ma è bene ricordarsi l’ammonimento della Little (1951) che “si possono osservare transfert normali, nevrotici e psicotici nello stesso paziente e perfino nel corso della stessa seduta”.
Secondo vari autori quello che Freud non aveva ben capito è il fatto che le obiezioni del paziente ad una interpretazione possono essere legittime. Intanto sono comunque catene associative, poi forse si può capire qualche cosa sul timing: forse il “no” del paziente è un “non ancora”.
Ma soprattutto l’obiezione non è sempre una resistenza di transfert; qualche volta è la segnalazione che tu analista hai sbagliato e il paziente ti corregge. Però siamo sempre nel transfert. Forse il paziente ha cercato di correggere un genitore da cui non si sentiva capito: è certo che i genitori sbagliano spesso, ma sbagliano spesso anche gli analisti.


Si deve a Maria Ponsi (1997) un aggiornamento fra transfert ed interazione, tema attualissimo. Nel corso degli anni il concetto di transfert ha subito vari cambiamenti. Uno dei punti ricorrenti è rappresentato dalla tendenza sempre maggiore a esplorare i significati inconsci nel qui-ed-ora prima di collegarli al passato. Nella concezione tradizionale dell’analisi, il presente viene utilizzato per accedere al passato.
Quello che si presupponeva era il ripetersi di un evento (ricordiamo il ripetere-ricordare di Freud), per ciò si cercava di ricostruire la storia infantile e si pensava che questa ricostruzione avrebbe liberato il paziente dalla coazione a ripetere.
Oggi il recupero di un ricordo non viene più considerato come un tassello utile all’opera di ricostruzione storica, ma piuttosto la conferma della giustezza di un’interpretazione nell’hic et nunc. Nella scuola kleiniana contemporanea l’interesse è rivolto sì al passato, ma a quello delle primissime fasi dello sviluppo, remote e praticamente inattingibili. Il che secondo Winnicott è di per sé molto discutibile. L’attività ricostruttiva viene considerata non necessaria, ma anzi fuorviante, perché porta il paziente a distrarsi dall’impatto emozionale della seduta.


Quindi l’analisi del transfert tende sempre più ad essere un’analisi del transfert-controtransfert che, focalizzandosi sul qui-ed-ora, si avvicinerebbe sempre più all’analisi dei movimenti interattivi fra i due membri della coppia analitica. Freud non ha mai usato il termine interazione; soltanto in questi ultimi anni il termine ha acquisito una certa fortuna.
Taluni lo usano in modo ovvio per indicare che sia le esperienze nell’analisi, sia le formulazioni cliniche e teoriche si basano sull’interazione paziente-analista. Il dilemma essenziale è che si ritiene (Schwaber, 1995) che l’interazione prospetti un punto di vista esterno sui fenomeni psichici, mentre il dominio della psicoanalisi è, e deve rimanere, l’intrapsichico. Molti pensano che se non manteniamo il focus su ciò che è interno finiremo per avviarci su una via di teorizzazione e di ascolto che è intrinsecamente non psicoanalitica.


Già nel 1976 Sandler indicava l’utilità della capacità verbale e non dell’analista ad impersonare un ruolo come forma di comportamento, non solo uno stato d’animo. Cioè nel 1976 Sandler cominciava a porre la questione di un analista che, mentre prende atto delle variazioni del proprio comportamento in risposta alle sollecitazioni del paziente, resta comunque pienamente padrone delle sue funzioni e del suo impegno psicoanalitico.
Vale a dire che quello che fino ad ora veniva considerato un acting out o comunque una resistenza di controtransfert, cioè in qualche modo un limite o un errore tecnico, veniva segnalato da Sandler come un’occasione per un approfondimento del lavoro analitico.
Del resto, anche per quanto riguarda l’acting out del paziente, si è passati dal considerarlo meramente un attacco o una resistenza, al vedervi una forma di comunicazione che aspetta di venire capita. Anche l’analista quindi agisce nel senso che la sua soggettività si manifesta nella relazione attraverso un comportamento evidenziabile. Questo è stato oggetto di studio negli ultimi anni soprattutto nella Psicologia dell’Io.


Si pensi d’altronde al ruolo sempre più relazionale assunto dal concetto di identificazione proiettiva. Si sta assistendo ad un attenuarsi della distinzione fra il controtransfert inteso come sentimento prodotto dalla parte proiettata dal paziente e il controtransfert inteso come comportamento che esprime l’equazione personale dell’analista.


Per Gill (1982) non esiste una dicotomia tra realtà esterna e oggettiva e realtà interna e soggettiva, ma piuttosto una realtà relazionale che adesso si vuol chiamare interattiva, in cui analista e paziente si incontrano per una costruzione comune dei significati. Egli sottolinea come ogni comunicazione da parte di entrambi è un’interazione.
Qualsiasi cosa l’analista dica o non dica è un comportamento, ovvero un’azione con uno specifico significato interpersonale. L’interpretazione stessa quindi funziona sul paziente come una sollecitazione a rispondere, a reagire. Secondo Gill il compito primario dell’analisi è appunto l’interpretazione sistematica dell’interazione. In conclusione nel modello di Gill, che egli chiama ermeneutico-costruttivista, il qui-ed-ora dell’interazione, è il fulcro dell’attenzione e dell’interpretazione. Egli usa preferibilmente il termine di interazione, ma vi affianca spesso quello di transfert senza chiarire però una consistente differenza di significato.
Poiché usa i due termini in modo intercambiabile, si ha l’impressione che i due concetti siano diventati per lui ormai indistinguibili.
Ora, l’importanza data da Ponsi (1997) all’interazione sia come fatto clinico in sé, sia per l’uso che se ne può fare per un’interpretazione, non la porta ad assimilarla col transfert. A parte che l’interazione si riferisce strettamente al presente, mentre il transfert chiama in causa per il suo stesso nome il passato, egli osserva che se l’attenzione agli aspetti interattivi della comunicazione con il paziente diventa prioritaria, si finisce col trascurare la grande utilità clinica del transfert [Ubertragung] che coglie più in profondità la dinamica inconscia e che alimenta continuamente il lavoro ricostruttivo.


In ultima analisi, quello che adesso viene definito come interazione o comunque come fare attenzione all’interazione, non è diverso, secondo noi, da ciò che abbiamo sempre fatto senza bisogno di questo termine e di questo concetto.
Quindi ci pare che quanto concerne l’interazione, attenzione, percezione, interpretazione sia una falsa verità, come argomentava già Bonaminio nel 1996, come in bibliografia: “il nuovo che avanza può avere un indiscutibile fascino, salvo scoprire poi che nasconde, maschera al suo interno il noto, l’assodato e anche il vecchio”.
La parola gegen [“contro” nella lingua italiana], non ha solo questo significato, ma anche, e non secondariamente, il significato di “verso”. Pertanto abbiamo (noi e l’autrice di questo articolo) inteso che Freud volesse dire che il controtransfert [gegenubertragung] fosse quello che l’analista sentiva verso, cioè nei confronti del paziente. Il concetto di controtransfert è stato per la prima volta utilizzato da Freud nel suo discorso inaugurale al Congresso di Norimberga del 1910.


Prima di tutto occorre osservare che il fenomeno del controtransfert era un fenomeno che Freud aveva già osservato: negli Studi sull’isteria osserva che nel terapeuta sembra si manifesti una situazione particolare in funzione del paziente.
Il primo caso fu quello di Breuer con Anna O. Si ricorderà che Breuer entra in una relazione tale con Anna che lo spaventa, tanto che alla fine fugge, avendo l’impressione che il suo matrimonio fosse minacciato.
Questo fatto non passò inavvertito a Freud. E allora già compare l’osservazione che anche il terapeuta è coinvolto nella situazione terapeutica.


Ne Il futuro della psicoanalisi (1910), Freud afferma che nessun analista può andare al di là di quello che gli permettono i suoi complessi e le sue resistenze. Da qui la necessità di una costante autoanalisi.
Tutto fa pensare che già all’inizio la reazione dell’analista appaia come uno strumento fondamentale, tanto che Freud arriva a dire che chi non è capace di questo compito non può fare l’analista.


In quanto al carattere resistenziale del controtransfert si può dire che è più intenso perfino del transfert: infatti Freud dice che è più facile vedere il conflitto nell’altro rispetto a noi stessi. Succesivamente Freud, Winnicott, Racker e Paula Heimann furono i primi che alla fine degli anni ’40 svilupparono il concetto di controtransfert.
Rossi Monti (2006) si sofferma sul contributo di Paula Heimann e Rumke H., C., (psicopatologo-fenomenologo e poi anche psicoanalista-) sul concetto di controtransfert per affermare quanto invece la storia e il dipanarsi delle teorie non sia lineare, anzi accade anche troppo spesso di essere trasformata. Rumke può giustamente essere considerato un precursore di quelle che saranno le posizioni teorico-cliniche della Heimann riguardo al controtransfert.
Egli, diversamente da quanto succedeva ormai da decenni, eliminò il divario che si era creato fra psicopatologia (“campo di battaglia” degli psichiatri) e psicoanalisi.
Effettivamente grazie al suo modo di “trattare” la schizofrenia, egli fu uno degli artefici di un, almeno parziale, ricongiungimento fra psicoanalisi e psicopatologia.
Egli infatti descrive la diagnosi di schizofrenia quando il clinico “avverte qualche cosa fuori posto dentro se stesso. Ha la sensazione di non riuscire a trovare il paziente”.


Questo “praecox feeling” non è proprio solo della schizofrenia, ma anche dell’isteria e della mania. In altre parole il clinico ha la percezione di un suo difetto di empatia nei confronti del paziente. Pochi avrebbero da obbiettare se queste descrizioni fossero citazioni della Heimann o di altri psicoanalisti. La Heimann, d’altronde, è uno dei pochi psicoanalisti che nel 1949-50 considerasse il controtransfert una specie di “praecox feeling:” il controtransfert, essendo l’insieme dei sentimenti che il clinico sperimenta verso il paziente, non va evitato, ma sostenuto. Diventa, la risposta emotiva del clinico, uno dei più importanti strumenti di lavoro dell’analista.


“Le emozioni risvegliate nell’analista lo indirizzano direttamente verso il nocciolo del problema, molto di più di quanto possa fare il solo ragionamento clinico, e, cosa fondamentale, queste emozioni hanno la peculiarità di essere qualche cosa che avviene nel clinico, ma che proviene dal paziente. Mediante una conoscenza attraverso il sentimento si possono organizzare interpretazioni secondo il sentimento.”
Si passa quindi con la Heimann dalla “comprensione per sentimento alle interpretazioni per sentimento”.


Si può considerare il transfert dell’analista come il controtransfert, nel senso che il terapeuta immette contenuti propri di sé, e non come semplice reazione al paziente. Di sé vuol dire anche elementi autobiografici che nulla hanno a che fare con il paziente. Racker (1968) concepì il transfert in questo modo.
Dall’altro lato il transfert dell’analista sul paziente e la sua risposta, farebbero pensare ad aspetti controtransferali reciproci: cioè il controtransfert è di entrambi, paziente ed analista, ed ha quindi valore relazionale [in altre parole il paziente reagisce al transfert dell’analista col proprio controtransfert].


Grosso modo fino agli anni Cinquanta e Sessanta il concetto di controtransfert si è andato sviluppando seguendo due direzioni opposte, almeno apparentemente. La controversia era soprattutto tra Stati Uniti e Sud America; controversia che esplose in occasione del Congresso Panamericano a Buenos Aires nel 1966.


Vi sono due correnti principali:
 

  • Un primo gruppo è costituito da quegli psicoanalisti che in generale seguono la cosiddetta Psicologia dell’Io, appartenenti all’area geografica dell’America del Nord, che considerano il controtransfert non come qualche cosa che prende parte al processo, ma piuttosto un fattore esclusivamente disturbante. Superarlo deve essere l’unica preoccupazione dell’analista. Per questi autori il controtransfert è costituito soltanto dagli aspetti conflittuali della relazione dell’analista con il suo paziente, legati alla persistenza dei conflitti infantili dell’analista stesso. In sintesi gli autori statunitensi non ammettono dunque che si stabilisca tra analista e paziente una normale relazione oggettuale, caratterizzata, come tutte le relazioni oggettuali, da introiezioni e proiezioni.

  • Un altro gruppo di psicoanalisti, seguendo i punti di Paula Heimann (1950), Money-Kyrle R. (1956), ma poi realmente sviluppati e strutturati da Racker a Buenos Aires nel 1960, considera il controtransfert come un ingrediente normale del processo analitico e come imprescindibile per il funzionamento del processo stesso. Tra l’altro sembra che queste concezioni siano quelle più diffuse in Europa dove non vi sono state molte controversie al proposito.
    Del processo analitico l’analista è quindi parte integrante. Questo gruppo ammette il carattere nocivo delle deviazioni inconsce di questa posizione normale: il controtransfert patologico che deve essere affrontato e risolto. Ma sostiene che la comprensione da parte dell’analista dei meccanismi che partecipano alla sua relazione con il paziente può essere usata come strumento tecnico nel suo lavoro. Così si realizza anche per il controtransfert quello che Freud aveva operato per il transfert e cioè il ribaltamento di questo concetto da ostacolo a strumento per l’analisi. A quest’ultima corrente si ispira prevalentemente la psicoanalisi europea ed italiana. Bion (1973) “unisce” queste due correnti nella frase: ”Le interpretazioni analitiche che sono stimolate dal controtransfert hanno certamente molto a che fare con l’analista. Se il paziente è fortunato hanno qualcosa a che fare anche con lui”.


Bibliografia


Barale F., Ucelli S. (2001). Alle fonti delle concezioni psicodinamiche delle psicosi. Karl Abraham e la psichiatria del suo tempo. Riv. Psicoanal., 693-709.


Bion W.R. (1973). Seminari brasiliani. In tr. it. Il cambiamento catastrofico, Loescher, Torino, 1981.

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