L’ODORE DELLA PORCILAIA

Marcella è bella ragazza, corteggiata, allegra, solare, piena di una folgorante e accattivante vitalità, eppure nel suo sguardo c’è qualcosa che mi turba. Apparentemente brillante e seducente, avverto una notevole freddezza e indifferenza che come una pietra ruvida e impermeabile getta la sua ombra sedimentaria nel profondo dei suoi occhi e mi rimanda un senso di vuoto incolmabile.

Marcella ha vissuto l’abbandono e il tradimento, in modo ripetuto e spregiudicato da parte delle figure di riferimento che avrebbero dovuto proteggerla, è cresciuta nel desiderio e nel bisogno di un rapporto di amore mai goduto e mai sperimentato.

Ha una vita sentimentale molto caotica, al limite della perversione, e vive sulla scia di un’inquietudine costante che la porta a cercare di continuo nei suoi rapporti  la soddisfazione a tale bisogno incancellabile, che ha le radici nella sua infanzia. Le sue relazioni con gli uomini sono marcate da questa esasperata tensione alla ricerca di un suo ideale di relazione, che puntualmente non trova, ciò  la spinge a passare da un’avventura  all’altra.

Prova emozioni contraddittorie e spossanti, passando dalla passione all’odio, dall’indifferenza alla seduzione, e attuando tradimenti seriali, come se nulla gli importasse dei sentimenti altrui.

Mi racconta che solo i nonni hanno cercato, offrendogli profondo amore e accudimento, di compensare le lacune di affetto e significato lasciate dai suoi genitori , arrivando ad estirpare e sradicare la loro storia, un sacrificio che è costato e ha trasformato la loro vita fino ad impoverirla e annullarla. 

Ad ogni incontro, mi porta  lettere indirizzate a suo padre, ma mai spedite e mi dice,  “mi piacerebbe che un giorno qualcuno potesse leggerle, forse chi è genitore avrebbe, così l’opportunità di rivedere i suoi comportamenti e comprendere il significato e l’importanza che un padre e una madre hanno per il proprio figlio” e come l’assenza, l’abbandono o il rifiuto segnano per tutta la vita.

 “Il primo ricordo di mio padre … cerca di sistemare le bambole che io regolarmente distruggo, cavandogli gli occhi, mutilandole, strappando i capelli. Erano i suoi regali ogni volta che tornava da un viaggio. Il secondo sono 1.000 euro che mi dette dieci anni dopo, quando compiuti diciotto anni, lo andai a cercare e lo incontrai alla stazione di Milano. 1.000 euro per dieci anni di assenza. Non mi aveva mai cercato anche quando all’età di nove anni a  causa di un brutto incidente era stato avvisato dall’avvocato di mia madre, per dare il suo assenso all’intervento.

Cosa mi aspettavo incontrandolo? Come lo avrei riconosciuto tra tanta gente in quel caos di rumori e volti anonimi? Mi venivano alla mente espressioni come “il richiamo del sangue..” e il cuore mi batteva forte, mentre ferma tra tante persone che passando mi urtavano, scrutavo i visi della gente che sembravano aspettare qualcuno. Poi all’improvviso: Eccolo!  Dio mio com’era diverso da quella foto sbiadita e ripiegata, unica immagine ritrovata dentro un vecchio libro,  salvatasi dalla furia devastatrice di mia madre. Come avrei dovuto chiamarlo … papà? E l’abbraccio doveva essere forte o appena mimato? Non ricordo come andò ma quello che è successo dopo si.

Eravamo seduti in macchina e diretti a casa sua, dove avrei conosciuto i suoi due figli, miei “fratellastri”…C’è qualcosa di sinistro in questo sostantivo, forse perché rimanda necessariamente al fatto che a causa della loro nascita io abbia dovuto cedere mio padre a un’altra donna, la sua attuale moglie.

Nel tragitto tra la stazione e il paese in cui viveva, cercavo di interrompere il pesante silenzio che sembrava dilatarsi nell’abitacolo con futili commenti sulla temperatura e la bellezza del paesaggio,  mentre lui  farfuglia discorsi che potevano colmare un vuoto di dieci anni. Gli dico che non serve. Ci siamo ritrovati: anno zero, primo giorno”.

Marcella mi chiede: ”Chissà se un giorno saprò comprendere questa sua assenza, capire come si può dimenticare di aver una figlia, come se non fosse mai esistita”. 

Dopo aver cercato e trovato suo padre, Marcella, appena poteva, il fine settimana, partiva per incontrarlo e per stargli vicino, suo padre gli aveva offerto ospitalità in un appartamento di sua proprietà a qualche kilometro da Milano. Alloggiare in quell’appartamento dove lui aveva vissuto, la spingeva a cercare di conoscerlo attraverso le sue cose sparse per le stanze alle quali chiedeva: “Parlatemi di lui!” e che parevano cimeli di un passato secolare con occhi enormi che tutto del padre avevano assorbito e conosciuto: le sue abitudini, la sua quotidianità, l’effetto del tempo che passava... segreti sul padre che lei non avrebbe mai posseduto.

Stargli accanto, aiutarlo e a pranzo sedersi a tavola, la domenica, gli dava il senso di  famiglia, che aveva sempre desiderato e invidiato ai suoi compagni. Per poche ore, tutti loro erano la sua famiglia. Aspettava il fine settimana per tornare a casa e quando qualcuno le chiedeva cosa avrebbe fatto, le piaceva dire con falsa sufficienza e un senso simulato di normalità “Vado da mio padre”.

L’accoglienza nei fine settimana si fece sempre più fredda, suo padre avanzò delle scuse sempre più frequenti, incominciò a dirle che aveva ospiti e che era meglio vedersi la settimana dopo, non capiva, non voleva capire. Marcella fu liquidata con poche parole, mentre veniva accompagnata alla porta: “È meglio che tu non torni, i ragazzi fanno domande su di te e questo mi provoca imbarazzo.  Mio padre avrebbe voluto dirmi: sarebbe stato meglio che non fossi mai tornata.  Andai a piedi alla stazione senza mai voltarmi”. 

Marcella non è stata abbandonata solo dal padre all’età di 8  anni, la madre, sempre assente e distratta, quando non era ossessiva e tirannica, poco tempo dopo la separazione, si era trasferita in Sicilia per cercare lavoro, lasciando Marcella  con i nonni.  I primi anni della sua infanzia, li aveva trascorsi in campagna della Romagna in una bella casa adiacente ad un caseificio, dove il nonno produceva il  parmigiano reggiano.

“Penso spesso ai nonni, ricordo il profumo di pane sfornato, di brodo di gallina messo a bollire sulla stufa a legna in una grande pentola di alluminio annerita dalla fuliggine, l’odore di bucato e di sapone casalingo, fatto con olio e soda caustica. Fuori l’odore cambiava e diveniva aspro e selvatico: più di trecento maiali riempivano la porcilaia. Tutti i caseifici affiancavano l’allevamento dei maiali, utilizzando il siero del latte prodotto dalla lavorazione del parmigiano, per preparare impastandolo con la crusca, il “pastone”, cibo prelibato ed economico per i famelici suini.

Li vedevo crescere, imparavo a riconoscerli, ne avevo adottato uno e mi occupavo di pulire il suo spazio, passavo del tempo a parlargli, versavo  un secchio colmo di pastone nella mangiatoia e gli accarezzavo la fronte mentre grugnendo, ingurgitava il cibo. Mio nonno in buona fede, mi aveva proposto questo impegno, facendomi così partecipare alla vita dell’allevatore. Ma una notte, verso l’alba fui svegliata  da grida stridule e da un sordo scalpitio: affacciatomi  alla finestra, vidi alla luce delle torce un grosso camion che da una rampa posteriore caricava i maiali, costretti a salire dall’uso di una verga e da una specie di pila che produceva scariche elettriche. Capii subito che li portavano a morire. La mattina, un silenzio innaturale, pesava su tutta la casa, le porcilaie erano vuote, i cancelli spalancati, anche l’odore era  diverso. Stringendo le sbarre della ringhiera, al di là della quale fino a ieri avevo visto crescere il mio maiale, guardavo smarrita questa immagine tremula dal pianto. Non lo avevo protetto, avrei dovuto impedire che lo portassero via, mio nonno mi aveva tradito, gli urlai piangendo tutta la mia rabbia e scappai via”.

La madre rientrava ogni tre mesi, le portava dei giocattoli, stava il fine settimana e ripartiva.  Marcella ha ricordi sbiaditi di quelle visite. Le prime volte, quando se ne andava,  piangeva disperata, non voleva che andasse via, di volta in volta la sua reazione mutò, fino a non volerla vedere quando ripartiva.  Andava a giocare nei campi, lontano, si fermava in un punto dove si vedeva la strada e solo dopo aver visto la macchina allontanarsi, asciugata qualche lacrima, riprendeva la strada del ritorno.

Marcella e i nonni si trasferirono in Sicilia, nella speranza divenuta poi un’ illusione di ritrovarsi, la mamma tornava a casa il fine settimana e la nonna preparava pranzi speciali. Un sabato arrivò con un uomo, Umberto, Maresciallo della Finanza, al tempo comandante della caserma di Lipari. Gli raccontava di quest’isola, del profumo del mare e dei tramonti, della pesca e  Marcella ne fece subito il suo idolo: la divisa, l’avventura che emanava, lo rendevano affascinante. “Aspettavo in un’attesa spasmodica quei momenti in cui eravamo tutti seduti a tavola  a parlare di storie. Un giorno la mamma tornò da sola, disse che Umberto non sarebbe più venuto perché trasferito in nord Italia. Oggi penso che abbia chiesto il trasferimento di proposito. Da quel momento la mamma si eclissò di nuovo. Spesso stava mesi interi senza tornare, adducendo  scuse sempre diverse, nuovi lavori, nuovi impegni, ed io riprendevo a  vivere  nell’attesa di lei”.

Marcella ricorda di non essersi sentita mai amata neanche da sua  madre, a volte la sentiva amorevole ed affettuosa, altre volte, più spesso era fredda e indifferente, quando non  diventava dura e severa, incapace ad accettare la più piccola trasgressione delle regole da lei imposte. Ad ogni sua partenza, la speranza di un legame veniva spazzata via e mentre lei si allontanava Marcella sentiva che non era più nella sua mente.

All’età di dodici anni la madre al ritorno  da un suo viaggio presentò a Marcella, Fernando, un altro uomo più giovane. Da subito le fu chiaro che si trattava di una storia molto appassionata.  Fin dall’inizio Fernando si comportò come un padre premuroso e Marcella ricominciò a sperare in una rinascita, ma qualche anno dopo il rapporto tra la mamma e Fernando divenne conflittuale, liti furiose erano all’ordine del giorno, e lei divenne la cavia di due indemoniati.

“Scappai di casa un paio di volte ed infine trovai lavoro come apprendista cuoca e andai a vivere con un uomo più grande di me, io 16 anni e lui 45 e quello divenne il mio rifugio.

Fin dal loro primo incontro, la dolcezza del suo sguardo la catturò in un abbraccio irresistibile e non pote’ fare a meno di arrendersi alla sua seduzione.

Il suo appartamento era piccolo ma confortevole. Approfittava di tutte le sue attenzioni e godeva avidamente di tutte le delizie che quell’estatico paradiso paterno le offriva.

La sera, Marcella si faceva trovare sempre in casa, eccitata e pronta a lasciarsi trascinare nel rito sensuale che lui allestiva … Le preparava meticolosamente  un bagno caldo corredato da petali di rosa selvatica e sali profumati, e tra le spire lente del vapore  e le sue carezze languide si sentiva rapita in un’ebbrezza senza fine.

Poi la lavava con cura in ogni parte del suo corpo con le sue grandi mani flessuose le sussurrava una cantilena infantile con la sua voce un po’roca. Infine nella luce ramata delle candele, il cui crepitio si accordava con le strozzature della sua melodia, lei si spogliava e lui come un timoniere navigato, la guidava in ogni gesto e in ogni movimento in un amplesso conclusivo. Il sudore si mischiava all’umido della loro pelle, e si sentiva di colpo sicura e forte avvinghiata tra i suoi tentacoli.

Poi dopo alcuni mesi questo gioco perverso e bellissimo  finì, perché stanco di lei,  si innamorò di un’altra donna  e Marcella tornò a vivere dai suoi nonni”.

Ancora oggi Marcella cerca in ogni incontro una madre, in ogni uomo un padre che  la protegga, ma regolarmente viene tradita e abbandonata, perché anche lei regolarmente tradisce ed abbandona, essendo l’unica cosa che conosce, che ha sperimentato e che la fa sentire viva.

Nelle sue esperienze affettive ritrova continuamente la sua fondamentale incapacità a valutare gli altri e capire i loro reali sentimenti, prova una continua e compulsiva  necessità di vivere esperienze sessuali di ogni genere: deve ”amare” per poi tradire, ma non riesce a comprendere la sua  incapacità ad amare se stessa e chi la circonda, in un gioco perverso dove l’unico obiettivo è incontrare se stessa. Perché quello che la lega all’altro non è l’amore ma il possesso e il potere del possesso, il bisogno di prendere e fagocitare per nutrirsi e sentirsi.

Marcella ha continuato a raccontarmi la sua storia, considerandomi un mentore a cui  rivolgersi nei momenti di vuoto, probabilmente quando, senza volerlo ammettere, sperimentava la fragilità del suo essere o veniva turbata da  sentimenti di sconfitta. Non aveva bisogno di risposte perché era in grado di  trovarle da sola, attraverso nuovi incontri sessuali e uomini seducenti, che la includevano in relazioni simbiotiche e soddisfacevano il suo bisogno di conferma, attenzione ed ammirazione.

Quando ho incontrato Marcella ho sentito una bambina piangere dentro di lei, credo che quella  bambina pianga ancora…….

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