Bruno Cucinelli è un imprenditore che ha ricostruito un borgo umbro all’interno del quale si trova la sua industria di abbigliamento. Nella sua azienda si prova a mantenere un ritmo umano e lui stesso cerca di non farsi afferrare dalla frenesia del lavoro. Ma quanti di noi possono dire di riuscire a fare lo stesso? E che disturbi comporta lavorare marciando a tappe forzate per non rimanere indietro?
Adeguarsi ai ritmi di questa civiltà in decadimento senza schermarsi ci sta facendo incontrare la matrigna con la mela avvelenata: qualcosa dentro di noi che dovrebbe proteggerci non sta funzionando ed è per questo che diventa sempre più frequente incontrare persone con crisi d’ansia, attacchi di panico, senso di fallimento e inadeguatezza, che comportano anche un netto peggioramento delle relazioni importanti.
Dice Cucinelli: “È diventato chic essere stravolti dal lavoro, è diventato tutto urgente, non c’è più la capacità di scegliere. I meeting si susseguono, ma i partecipanti sono tutti impegnati a scrivere messaggini. Il livello di attenzione è esiguo, il tasso di deconcentrazione è altissimo”.
Niente di nuovo sotto il sole: la fatica di vivere nel proprio tempo storico è esistita da sempre. La sfida per ritrovare se stessi rimane un atto eroico attuale.
A meno che non si siano subiti traumi importanti, i disturbi menzionati sopra sono alleati di valore che ci segnalano di aver perso la strada. È esperienza comune essere presi nel vortice della vita e del lavoro, impegnarsi a fare scelte che sembrano le migliori del momento: tutti abbiamo bisogno di fare esperienza e di imparare. Ma quando quell’esperienza mostra i suoi limiti e la nostra resistenza mostra la corda, allora è necessario fermarsi per poter pensare e percepire che un’onda ci sta trascinando e non è quello che avevamo in mente. Siamo spaesati e il corpo ci dà dei segnali: è un momento che prima o poi tutti sperimentiamo, la selva oscura raccontata da Dante.
La strada si è fatta impervia e i punti di riferimento si sono annebbiati. Dobbiamo allora decidere “chi” essere: qualcosa di nuovo sta emergendo dall’interiorità personale e il suo scopo è renderci maggiormente consapevoli.
La terapia come ricerca della vera identità personale.
Cercare la propria identità è un viaggio che si può svolgere solo avendo come base un percorso con una psicologia del profondo. Un buon lavoro di dialogo fra coscienza e inconscio consente di mettere davvero a frutto il tempo impiegato per ricostruire la propria storia e le proprie attitudini.
L’inconscio è formato da contenuti di origine diversa, di cui parti importanti sono le impronte affettive, educative ed esperienziali dei primi 18-24 mesi di vita. Questo è materiale che non può essere “raccontato” verbalmente, poiché in quel periodo della vita il piccolo bambino non è in grado di parlare; così la memoria di quel tempo viene detta implicita.
Un’altra parte importante dell’inconscio è costituita dalle esperienze successive ai due anni di vita, che invece possono via via essere anche raccontate in modo sempre più preciso. In un ponte continuo con la coscienza, questi contenuti possono essere ricordati o rimossi a seconda delle circostanze. Questo vasto gruppo di elementi sono riuniti nella memoria esplicita.
Dentro questi due comparti si trovano le ragioni dei nostri modi di reagire, di non reagire e il senso dei disturbi emotivi.
Esiste poi un elemento diverso, creativo, profondo, che conferisce un’impronta unica al nostro Essere. Questo elemento è di massima importanza, perché in esso è racchiuso il linguaggio specifico che ci orienta nel dare un senso alla vita. Quando gli elementi della nostra storia hanno acquisito un collocamento logico, questo elemento creativo spinge per emergere e collegarci a un lato diverso della realtà.
Il metodo del Gioco della Sabbia è utilizzato nell’area della Psicologia analitica derivata da Jung. Si tratta di uno spazio libero e protetto di espressione creativa che è in grado di mettere in luce le impronte familiari e la storia dell'accudimento materno ricevuto; aiuta a far emergere i lati conflittuali e contemporaneamente è strumento per dare forma all’impronta dell’anima che alberga in ognuno di noi.
Il lavoro nella sabbiera, con gli oggetti in miniatura – che rappresentano il mondo nella sua vastità di forme – ha un grande potenziale trasformativo.
La sua forza sta nell’essere un metodo affidabile, applicabile a chiunque, che facilità la comunicazione empatica tra terapeuta e persona, pur non necessitando di interazione verbale né di interpretazione.
Le scene che si formano sulla sabbiera sono una fotografia di ciò che dall’inconscio è via via pronto a emergere. È lavoro con le mani a mente libera. È ritorno a pensieri, sentimenti, epoche sepolte dentro di noi. È la ricerca del contatto con il proprio Sé naturale, il motore e l’organizzatore delle nostre esperienze della vita; è il contatto, quindi, con l’essenza originaria dell’infinito, quella sostanza delle stelle di cui siamo fatti, che non ha bisogno di meeting, cellulari e rincorse dietro l’effimero per far emergere le potenzialità costruttive e curative.
Approfondimenti e immagini sul sito www.psicoterapia-psicodramma-jung.com

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