Quando è che riusciamo ad essere buoni in modo autentico? [Seconda parte]

Lo scopo degli studi della psicologia sociale, oltre a quello di investigare sulle ragioni profonde del comportamento umano, si può trovare anche nel dare un contributo alla soluzione di problemi reali, quali la riduzione dell’ostilità, (molto importante per i nostri giorni attraversati dall’incalzare di azioni terroristiche) e del pregiudizio, il diffondersi dell’altruismo e della generosità, ecc.

La capacità di comprendere e spiegare il complesso comportamento sociale contiene, in questo, una vera e propria sfida al cambiamento.

Di tale area fa parte il comportamento prosociale, ovvero quando è che riusciamo ad essere buoni in modo autentico?

Il comportamento prosociale è definibile come qualsiasi azione commessa allo scopo di arrecare beneficio ad un'altra persona. Un comportamento prosociale che non tiene conto del proprio interesse è l'altruismo.

Quali sono le motivazioni del comportamento prosociale? Le persone aiutano gli altri anche quando non hanno niente da guadagnarci, o solo quando hanno qualche ricompensa?

I biologi hanno utilizzato i principi sulla selezione genetica propri della teoria dell'evoluzione per spiegare alcuni comportamenti sociali, come l'aggressività e l'altruismo, dando vita alla psicologia evolutiva. Secondo il meccanismo evolutivo, il comportamento altruistico avrebbe dovuto estinguersi, in quanto meno favorevole alla riproduzione della specie rispetto a quello egoistico. Gli psicologi evoluzionisti hanno allora cercato di giustificare l'esistenza dell'altruismo in tre modi:

  1. Selezione parentale: le persone possono aumentare la probabilità di trasmissione dei propri geni non solo avendo figli, ma anche curando che i propri consanguinei abbiano una discendenza. Quindi sarebbe evoluzionisticamente positivo un comportamento altruista verso i consanguinei. Le verifiche sperimentali hanno confermato questa ipotesi: le persone in situazioni di pericolo danno la priorità alla salvezza dei propri parenti stretti.
  2. La norma della reciprocità: le persone aiutano gli altri con l'idea implicita che questo comportamento verrà ricambiato. In ragione del suo valore di sopravvivenza, questa norma di reciproca assistenza potrebbe aver assunto base genetica.
  3. L'apprendimento delle norme sociali: abbiamo bisogno di apprendere dagli altri le regole e i costumi della nostra società, per poter sopravvivere e vivere meglio. Una di queste regole è proprio il valore dell'aiuto reciproco.


La psicologia evolutiva è un approccio interessante, ma molti psicologi restano comunque scettici sul fatto che i comportamenti sociali possano essere fatti risalire alle nostre origini ancestrali e si siano propagati per via genetica. Un’altra teoria della psicologia sociale, la teoria dello scambio sociale, con le sue similitudini basate sulle leggi di mercato (benefici-costi), postula che il comportamento altruistico può essere fondato sull'interesse individuale. Aiutare può essere remunerativo in molti modi, ed è un investimento nel futuro. Aiutando gli altri possiamo anche ottenere approvazione sociale e quindi maggior autostima. I costi naturalmente possono essere alti, legati al pericolo, al dolore, all'imbarazzo e al tempo che si perde.

Fondamentalmente la teoria dello scambio sociale sostiene che, quando i costi superano i benefici, le persone non si comportano più in modo altruistico. In altre parole, il vero altruismo non esisterebbe proprio.

Lo studioso Batson, pur ammettendo che le persone in molte situazioni aiutano gli altri per motivazioni egoistiche, sostiene che esiste anche l'altruismo puro, e che questo entra in gioco quando avvertiamo empatia per la persona bisognosa d'aiuto (ovvero avvertiamo parte della sofferenza che questa persona sta vivendo). Nel caso che non si stabilisca empatia, allora entra in campo lo scambio sociale a regolare i nostri comportamenti.

Naturalmente non è semplice stabilire le motivazioni di un comportamento complesso qual'è quello umano, e per giungere allo scopo Batson e i suoi colleghi hanno messo a punto particolari accorgimenti sperimentali.Nell’occuparci di  differenze individuali ci possiamo chiedere se esista una specifica personalità altruistica e quali siano le  qualità che portano un individuo ad aiutare gli altri in varie situazioni. In realtà, com'è noto, la personalità non è l'unica determinante del comportamento. Bisogna considerare anche i fattori situazionali e le pressioni ambientali. Infatti le prove sul campo hanno dimostrato che individui, che da un punto di vista personale avrebbero dovuto aiutare di più, si comportavano in maniera completamente diversa, e meno altruisticamente di altri, a seconda delle situazioni. La personalità quindi pare non essere una componente fondamentale dell'altruismo.

Secondo gli stereotipi di ruolo maschili e femminili, gli uomini dovrebbero essere più in grado di  prestare aiuto in azioni eroiche e cavalleresche, mentre le donne in situazioni di volontariato o assistenza domiciliare. Ed in effetti gli studi hanno dimostrato che gli uomini sono nettamente la maggioranza tra le persone che si sono segnalate per aver aiutato sconosciuti. Si potrebbe ipotizzare che gli individui appartenenti a culture collettiviste abbiano maggior probabilità di sviluppare un comportamento altruistico. In realtà, le persone di ogni cultura aiutano con maggior frequenza i componenti del proprio in-group, e meno quelli dell'out-group. I fattori culturali influiscono sulla forza dei confini di demarcazione tra questi due gruppi. I membri di culture collettivistiche, in cui l'in-group è molto più definito, hanno molte più probabilità di aiutare i membri di quest'ultimo, ma meno di aiutare i membri dell'out-group rispetto agli appartenenti alle culture individualiste.

Le ricerche hanno rivelato che l'umore, ovvero lo stato emotivo in cui ci troviamo, influenza in maniera importante la nostra disposizione ad aiutare gli altri. Questo perché:

  • quando siamo di buon umore, tendiamo a vedere di più gli aspetti positivi degli altri
  • aiutare è un buon modo per aumentare le nostre sensazioni positive
  • lo stato d'animo positivo accresce la quantità di attenzione prestata ai propri sentimenti, e quindi anche ai nostri valori, tra cui ci può essere l'altruismo.
    Anche un certo tipo di cattivo umore accresce l'altruismo: si tratta del basso umore collegato ad il senso di colpa. Aiutare, infatti, sembra  ridurre il sentimento di colpevolezza. Anche la tristezza può essere determinante. Si tratta evidentemente di altri aspetti della teoria dello scambio sociale: aiutiamo per aiutarci.

Per comprendere a fondo il fenomeno del comportamento prosociale, abbiamo bisogno di considerare anche la situazione sociale in cui si trovano le persone. Le persone che abitano in piccole città o ambienti rurali sono più portate ad aiutare gli altri. Questo può dipendere dal più alto grado di socievolezza e fiducia reciproca rispetto agli ambienti urbani. Casi accaduti realmente in ambiente urbano e ricerche di laboratorio hanno dimostrato che, quando si tratta di ricevere aiuto, il numero dei testimoni non offre alcuna garanzia di rapida assistenza. Anzi, è vero il contrario: maggiore è il numero di testimoni che assistono ad un'emergenza, minore è la probabilità che qualcuno di essi aiuterà la vittima: è l'effetto testimone.

La possibilità di avvertire un evento come un'emergenza dipende da molti fattori, anche contingenti, come la capacità di concentrarsi. Inoltre molto dipende dal fatto che gli altri intorno a noi interpretino ciò che accade come un'emergenza. Se la situazione presenta aspetti ambigui, ci affidiamo all'influenza sociale informazionale, con tutti i vantaggi e i problemi che questo comporta. A volte si presenta il fenomeno dell'ignoranza collettiva, in cui nessuno sa cosa fare e gli individui sono portati a pensare che non vi sia una situazione di pericolo che invece è presente. E' poi presente il problema dell'assunzione di responsabilità: una volta stabilito che c'è un'emergenza, dobbiamo essere in grado di capire che aiutare tocca a noi, e non a qualcun'altro. Quando ci sono molti testimoni, si verifica il fenomeno della diffusione di responsabilità, per cui nessuno percepisce una forte spinta ad intervenire. Ciò accade soprattutto se non sappiamo se gli altri siano già intervenuti. Anche il fatto di sapere o meno quale tipo di aiuto dare è importante: se non sappiamo come aiutare, è più probabile che non interverremo. Infine, esistono molti altri fattori che possono farci scegliere di non intervenire: la mancanza di esperienza, il timore di sbagliare o di metterci in pericolo, ecc.

Una grande quantità di ricerche della psicologia sociale si è concentrata sull'aiuto tra estranei. Nella realtà, molte situazioni di aiuto si verificano tra persone che si conoscono bene, come famigliari, amici, ecc. In questi casi si deve distinguere tra relazioni di scambio e relazioni di condivisione, così come prima evidenziate. Le relazioni di scambio sono tipiche fra estranei o tra persone che non si conoscono bene. Le relazioni di condivisione invece sono caratterizzate dalla volontà di aiutare gli altri. Le ricompense per l'aiuto sono importanti anche nelle relazioni di condivisione, ma è probabile che in questo caso non ci si aspetti un ritorno immediato, ma dilatato o spostato nel tempo. Si tratta di relazioni che implicano uno scambio a lungo termine. Altri studiosi hanno comunque evidenziato la natura fondamentalmente diversa delle relazioni di condivisione, rilevando che le persone sono meno interessate ai benefici che ricevono, e più a soddisfare semplicemente i bisogni degli altri. Questo significa che le probabilità di aiutare un amico sono notevolmente superiori a quelle di aiutare un estraneo, anche in caso che non ci aspettiamo alcuna ricompensa. C'è solo un'importante eccezione a questa regola: quando un certo compito ha molta importanza per noi, potremmo essere portati ad aiutare di più un estraneo a compierlo, in quanto vedere un amico riuscire meglio di noi in un campo che rappresenta molto per la nostra autostima ci crea qualche problema.

Migliorare i fattori della personalità che aiutano il comportamento prosociale può essere utile. Ma ancora più importante è abbattere le barriere che si frappongono tra chi aiuta e chi è aiutato. Essere consapevoli dell'influenza degli altri in situazioni di emergenza può aiutarci a superare l'indifferenza e la fuga dalle responsabilità. E naturalmente è anche importante capire che l'aiuto non va imposto indipendentemente dal fatto che la persona lo voglia o no. Ricevere aiuto in certi casi può essere dannoso per l'autostima. Si deve quindi dare sostegno, non cercare di dimostrare la nostra superiorità.

Negli ultimi anni, forse proprio a tutela della ferita narcisistica inferta alla nostra autostima in situazioni di malessere, si è andato sviluppando e diffondendo un nuovo campo di ricerca, la psicologia positiva. Questa si pone come correttivo all'enfasi posta dalla psicologia clinica tradizionale sugli aspetti negativi delle malattie in genere. La psicologia positiva, al contrario, cerca di concentrarsi sul corretto funzionamento umano e su come aiutare le persone a sviluppare il più possibile il loro benessere ed il loro potenziale di salute nonostante il destino dei limiti della condizione umana.

I fenomeni sociali dei giorni nostri quali il terrorismo e gli innumerevoli sbarchi di migranti con migliaia di persone ad oggi bisognose di aiuto e sostegno, ci interrogano su quali parti del nostro essere uomini siano in gioco rispetto al dolore dei nostri simili.

Si tratta di due fenomeni apparentemente molto diversi ma entrambi rivelano quale fattore mancante nella risoluzione di entrambi sia proprio, forse, ciò che Batson definisce l’empatia con colui che ha bisogno… Sia in chi uccide con violenza, sia in chi guarda con indifferenza le scene di dolore e morte per gli sbarchi continui dei migranti, sembrano affievolirsi sempre più, sino a scomparire proprio quei processi empatici, gli unici che ci autorizzino a parlare di bontà nel senso laico del termine.

 

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