Adolescenza: come comportarsi con i ragazzi a questa età così delicata

Nella mia pratica clinica mi capita sempre più spesso che la richiesta da aiuto provenga da giovani adulti, tra i 20 e i 25 anni. Mi chiamano e la prima cosa che mi dicono sempre è che il venire in studio da me è una loro iniziativa, che mi hanno cercata in internet e che la loro famiglia sa che vengono qui ed è d’accordo.

Penso ai miei giovani pazienti, tutti cosí meravigliosamente diversi tra loro, ma estremamente simili in un aspetto: la loro fragilità. Con tutti loro, nei primi colloqui, ho avuto la sensazione che quasi si scusassero per il fatto di stare male: non ci sono “traumi” eclatanti, o, come dicono loro, “motivi veri” per stare male. Eppure stanno male, soffrono.

Il gran numero di richieste di questo tipo, concentrate in poco tempo, mi ha portata più volte a riflettere su cosa stia succedendo a questi giovani, cosi vulnerabili e disarmati di fronte alle richieste della vita.

Non sono adolescenti, da un punto di vista prettamente anagrafico, ma le dinamiche da cui sono animati sono tipiche di questo periodo cosi complesso che per anni è stato considerato, come dice Anna Freud, la “cenerentola” della psicoanalisi. Vediamo quindi qualche aspetto di questo periodo della vita umana cosi complesso.

Durante l’adolescenza avviene un vero e proprio rimodellamento del cervello, con modificazioni a livello delle connessioni sinaptiche e della corteccia cerebrale: è un vero stravolgimento che porta con sé dei compiti evolutivi molto complessi e il cui esito dipende in gran parte dall’equipaggiamento acquisito durante l’infanzia.

Il ragazzo deve affrontare quello che viene chiamato “secondo processo di separazione-individuazione”: secondo, perché già durante la prima infanzia il bambino ha dovuto separarsi dalla fusione con la mamma per iniziare a crearsi come individuo separato. In adolescenza il compito principale riguarda l’identità: si tratta di un’identità nascente, in cui si gettano le basi per quello che si vorrà essere da adulti. Per potersi individuare, e dunque creare una propria identità, l’adolescente deve potersi separare dai suoi genitori: ma come ci si può separare da un qualcosa che amiamo alla follia e da cui sentiamo di dipendere? Ecco brevemente spiegato il famoso “conflitto adolescenziale”, quel periodo complesso in cui i giovani si ribellano ai proprio genitori, sbattono le porte, urlano parole cariche di odio… questi momenti, cosi dolorosi per un genitore, sono un goffo tentativo del figlio di distaccarsi dal genitore, di affermare il suo essere autonomo, separato, non più totalmente dipendente da chi lo ha messo al mondo. Ci si allontana dai genitori, mossi dalla paura, inconscia, di poter “tornare indietro” e ci si avvicina ai coetanei, principale modello di identificazione. Gli adolescenti spesso sono accusati di essere tutti uguali, di indossare gli stessi abiti, di parlare allo stesso modo e di fare le stesse cose. Quello che da adulti viene spesso confuso con il conformismo è per l’adolescente una rassicurazione per la creazione della sua, ancora incerta, identità: il senso di appartenenza permette loro di avere la forza necessaria per il distacco dal nucleo familiare senza sentirsi troppo soli in questa fase, l’ideologia o lo stile a cui aderiscono sono una sorta di contenitore per un’angoscia di frammentazione che spesso sentono di provare, senza sapersene dare una ragione. 

 

L’adolescenza di oggi è un’adolescenza che inizia sempre prima e finisce sempre dopo: quella che in psicologia si chiama “fase di latenza”, individuata da Freud tra i 6 e gli 11 anni, sta scomparendo perché già sul finire della scuola elementare i bambini, e soprattutto le bambine, sembrano delle piccole donne. La sessualità da dormiente diviene agita e l’ingresso nell’adolescenza avviene molto più rapidamente di qualche decennio fa. I compiti evolutivi sono anticipati in una struttura non ancora pronta per affrontarli, le tappe forse bruciate portano al bisogno di evasione per contrastare quel sentimenti di noia e di “già fatto” che preclude il piacere della scoperta.

Gli adolescenti di oggi hanno anche 25 anni e sono figli di una società liquida, come la definì il grande Bauman, dove si vive l’amore liquido: un amore diviso tra il desiderio di emozione e la paura del legame. Ciò che accomuna tanti di questi ragazzi che vedo nel mio studio è proprio questo, la paura di avvicinarsi all’altro ma al contempo il desiderio di farlo: il lavoro che si fa è spesso quello di aiutarli nel cercare la loro “giusta distanza”, quella che consenta loro di entrare in relazione, sentendosi cosí meno soli, senza la paura di essere fagocitati da questo legame.

Il contesto attuale ha pian piano smantellato i propri garanti sociali, rappresentati per anni dallo Stato, dalla Chiesa, dall’ideologia politica e ha modificato i propri riti di passaggio da una fase all’altra della vita: questo ha ridotto, e in alcuni casi annullato, la distanza tra le generazioni, rendendo molto più difficile per i ragazzi di oggi la separazione di cui parlavamo prima e dunque la loro individuazione. Sono giovani molto fragili dal punto di vista narcisistico, arrabbiati e spaesati, che chiedono di essere ascoltati.

Lo psicoanalista Cahn, parlando della relazione terapeutica con l’adolescente, sostiene che il terapeuta debba essere, come il genitore, un adulto sufficientemente buono, presente ma allo stesso tempo capace di farsi da parte se necessario, per permettere le “prove di volo”.

Questi ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a dar voce alle loro sofferenze, accogliendole, senza etichettarle. Il paradosso di cui parla Cahn è proprio questo, il fornire ad una persona alla ricerca di domande “solo” ascolto e non risposte: lo spazio dell’ascolto interiore è quello che spesso fa maggiormente soffrire e, per fuggire al sentire, gli adolescenti agiscono, mettono in scena i loro vissuti.

Stare in ascolto fornisce uno spazio in cui si può stare e sentire, perché non si è soli, senza necessariamente bisogno di agire, uno spazio dove la loro sofferenza per la fatica di crescere, di crearsi un’identità, di rispondere alla molteplici domande che si fanno viene accolta e legittimata.

 


 

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