Mentalizzazione e disturbo da attacco di panico

RIASSUNTO

E’ la prima occasione in cui il costrutto di mentalizzazione è cimentato con il Disturbo di Attacco di Panico.

Attraverso la comparazione di due casi clinici, quello di una ragazza affetta da un DAP nel contesto di un’agorafobia cronica con abituale ricorso alla somatizzazione e quello di una donna di mezza età con un attacco di panico conseguente a un evento terrorizzante nel contesto di una personalità più matura malgrado tratti ansiosi e agorafobici, viene discusso il ruolo del difetto di mentalizzazione nel DAP e l’insediamento di un abbozzo di mentalizzazione come svolta di una psicoterapia.


INTRODUZIONE

La mentalizzazione è prima di tutto un costrutto sociale in quanto è per suo tramite che siamo consapevoli e quindi poi reagiamo agli stati mentali propri e altrui. Per questo essa è centrale nella comprensione e nel trattamento di molti disturbi, come i disturbi alimentari (Skarderud 2007) e i disturbi dell’umore (Allen et al. 2003), il disturbo post traumatico da stress (Allen 2001), la patologia psicosomatica (Fasullo 2009) anche se è da dieci anni il cavallo di battaglia del trattamento del disturbo borderline (Bateman e Fonagy 2004 e 2010).

Il concetto nacque nel 1938 (Stern) e attraversò l’Infant Observation e poi l’Infant Research, collegando il processo di mentalizzazione anche ai tipi di attaccamento (Bowlby); in Francia ne parlarono l’Ecole Psychosomatique de Paris (Marty 1980) e poi Sami-Ali (1987) e Mc Dougall (1989), ma è solo a partire da Fonagy (1989, 1991) che esso si sviluppò, sia dal punto di vista concettuale, che operativo, profittando anche dello sviluppo di altri concetti come la funzione riflessiva (Rudden et al. 2008) .

Non si pensi quindi che un deficit nella mentalizzazione inevitabilmente legato ad un trauma specifico e grave, ma anche solo allo sviluppo di uno stile di attaccamento non sicuro evidenziabile con le scale della Ainsworth (1982) e della Main (1991) e quindi con una incerta capacità di riflessione, anch’essa misurabile (Rudden et al., citati).

A questo punto io però mi allontano dai concetti generali di mentalizzazione e di funzione riflessiva, ma li considero come uno strumento prezioso per le persone che soffrono di attacchi di panico. Non è la mia una novità assoluta per l’Italia perchè lo ha già brevemente richiamato Fasullo in un breve articolo recentemente pubblicato in generale nei disturbi psicosomatici, come l’attacco di panico è (Berti Ceroni 2010). Ho presente per la comprensione e il trattamento del panico una serie di articoli che facevano il punto delle osservazioni di un gruppo di psichiatri (Klerman, Shear) e psicoanalisti (Cooper e Shapiro) pilotati da Busch, che si sono susseguiti a partire dall’inizio del decennio scorso (Busch 1991) fino al grande volume collettaneo sulla mentalizzazione (Busch 2008) e ne ho personalmente sentito e discusso con Mary Target un anno fa.

I pazienti che soffrono di un disturbo da attacchi di panico sono persone che, in generale, hanno una grave carenza nella mentalizzazione: per un periodo medio-lungo con questi pazienti non si può che parlare di sintomi, mancando essi appunto della necessaria capacità introspettiva perché si possa far altro in terapia.

D’altronde non è un caso che il disturbo da attacchi di panico sia uno dei disturbi psicosomatici per eccellenza: ricordiamoci che è nato all’Ecole Psychosomatique e che ha le stimmate che Berti Ceroni (2010) enuncia per quando un disturbo psichico può essere appropriatamente chiamato psicosomatico, e cioè l’instaurarsi di fenomeni somatici in sequenza fino a uno stop attribuibile ai meccanismi di arresto per feedback somatico.

Anche al di fuori dell’attacco/degli attacchi di panico chi ne soffre è decisamente carente nella mentalizzazione e sta al terapeuta riuscire ad indurlo ad essere consapevole dei propri sentimenti e pensieri. Per questo nella lingua anglosassone si preferisce usare il gerundio (mentalizing): la mentalizzazione è un’azione. Nella seconda fase della terapia (Monari 2000, 2007) il terapeuta aiuta il paziente a gestire i sentimenti e i pensieri che esso ha, derivanti o da tempi lontani o dal hic et nunc.

Voglio spendere altre parole sul concetto di mentalizzazione e di funzione riflessiva nei pazienti sofferenti di disturbo da attacco di panico e su come poi essi si declinano nella strategia terapeutica.


ELEMENTI DI STORIA DEL DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO

Il panico è l’ultimo “uomo nero” della sofferenza psichica (psicofisica) dell’uomo, che è venuto dopo l’anoressia, la depressione, le varie tossicomanie. Certo, chi per qualche manciata o decina di minuti sente che sta per morire – o diventar matto – mentre tutti i parametri biologici (frequenza cardiaca, pressione arteriosa, respiro) impazziscono, ha ben chiaro che di cosa grave si tratta: l’attività in corso viene interrotta, si corre all’ospedale. L’abbandono improvviso della scena da parte di un famoso comico e la guizzante fuoriuscita dalla vasca di una nuotatrice quest’anno sono esempi di questa impellenza.

Non si tratta di fenomeno che sia divenuto noto da poco tempo: il concetto, non il nome, di panico nacque all’interno della psicoanalisi, un “preciso complesso di sintomi” che Freud chiamò “nevrosi d’angoscia” per distinguerlo dalla neurastenia (Freud 1894, p.147). Come già in alcune minute, la J e la K in primis, Freud sostanzialmente ipotizza che la neurastenia sia un eccitamento psichico imputabile a una scarica libidica inadeguata e impropria, e la nevrosi d’angoscia, invece, una tensione fisica, che ora diremmo da stress. Freud, da fine clinico quale era, alla descrizione della complessa sintomatologia psichica e fisica dell’attacco vero e proprio – dispnea, palpitazione, angoscia relativa al corpo (ipocondria, claustrofobia, agorafobia, vertigine delle altezze), rimuginio ossessivo – aggregò “l’attesa angosciosa” che lo anticipa e l’agorafobia che lo segue, e identificò quindi l’intero complesso sintomatologico ora chiamato Disturbo da Attacchi di Panico. La teoria era che l’attacco di panico fosse attribuibile a un trauma pulsionale, cioè all’“ingorgo” libidico.

Da allora varie sono stare le ipotesi riguardo all’eziologia del disturbo da attacco di panico, quella che a me pare più coerente è quella di matrice relazionale: secondo la teoria delle relazioni oggettuali il soggetto non sarebbe stato in grado di introiettare in modo sufficiente il caregiver: ecco allora che il terapeuta deve fare da contenitore metabolizzando emozioni e pensieri (da Winnicott, a Bion, a Gaddini) finchè non è il paziente stesso che riesce a farlo.

D’altronde se ben riflettiamo su questa possibile eziologia essa è la stessa che Fonagy e coll. e un’infinità di altri studiosi la invocano come causa non solo del disturbo da attacco di panico, ma anche del disturbo border, di cui appunto Fonagy si è occupato promuovendo la mentalizzazione.

D’altronde secondo la Scuola Francese il disturbo psicosomatico è dovuto ad un precoce disturbo con il caregiver tale che il futuro paziente non riesce a introiettare l’oggetto. McDougall (1989) usa la metafora del corps à deux per indicare la matrice di base (un solo corpo per due persone, madre e figlio) da cui il neonato si differenzia per individuazione, de somatizzando le funzioni mentali. Il fallimento maturativo provoca la désaffection: emozioni precoci intense che minacciano l’identità psicofisica costringono a erigere una barriera difensiva potentissima per preservare la sopravvivenza psichica e rendere il campo affettivo inaccessibile alla consapevolezza. Ciò determina l’inabilità nel paziente psicosomatico adulto a riconoscersi nel proprio corpo e nei propri affetti. E’ l’astrazione che rende concepibile il dolore mentale. Il sintomo psicosomatico risulta un parziale fallimento di questo processo. In esso il corpo parla al posto della mente che non si è formata: la tendenza alla somatizzazione è dunque un’operazione auto protettiva dalla insopportabile tensione di ogni mutamento, avvertito come minaccioso per la sopravvivenza del Sé.

Cosa diversa è il costrutto di alessitimia, che si basa fondamentalmente su un deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni, dovuto al fatto che il soggetto psicosomatico si caratterizza per non aver appreso ad esprimere verbalmente le sue emozioni a causa di un grave disturbo evolutivo nelle relazioni oggettuali; ciò ha permesso di abbandonare il vecchio modello delle malattie psicosomatiche centrate sul conflitto.

L’ipotesi stessa di Bowlby e dell’Infant Research, a ben vedere, non è che un difetto nell’attaccamento dovuto a una carenza dell’introiezione degli oggetti esterni.

L’agorafobia stessa, sempre così legata all’attacco di panico, o prima o dopo di esso (Berti Ceroni e Grava in preparazione), ci parla di contenitori: se essa avviene dopo l’attacco è spiegabile come una condotta di evitamento, se avviene prima come la paura di “disperdersi” nel vuoto non avendo potuto creare una pelle (Bick) che contenesse il soggetto. Stessa eziologia, a parer mio, per la claustrofobia: la mancata introiezione fa si che in luoghi chiusi ci si senta “schiacciati” sempre per la mancanza di un introietto. Tutto ciò fa sì che chi soffre di attacchi di panico (oltre a chi soffre di disturbo borderline di personalità soprattutto) ha un continuo bisogno di avere l’altro concretamente presente e ha bisogno di una continua rassicurazione che questo non stia per lasciarlo (per esempio la paura e le conseguenti rassicurazioni sul chiedere se l’altro è arrabbiato con noi).


ELEMENTI GENERALI DI TECNICA TERAPEUTICA

Anche al di fuori dell’attacco, dell’ictus emotivo (Klein 1964) e somatico, il linguaggio sarà solo quello del corpo e sarà solo con un’attività continua e a volte pedante che il terapeuta può cercare di portare il paziente nei sentimenti e nei pensieri su di essi, non essendone egli da solo capace; fenomeni uguali a quelli della fase dell’esplorazione che Fonagy e Bateman usano con i pazienti borderline.

Da un punto di vista tecnico mi sono riconosciuta nella suddivisione in due tempi della terapia illustrata da Monari (2000 e 2007): il primo appunto quando il paziente è decisamente carente nella mentalizzazione e sta al terapeuta riuscire ad indurlo ad essere consapevole dei propri sentimenti e pensieri. Ricordo che è per questo che nella lingua anglosassone si preferisce usare il gerundio (mentalizing): la mentalizzazione è un’azione. Nel secondo tempo il terapeuta aiuta il paziente a gestire i sentimenti e i pensieri che esso ha, derivanti o da tempi lontani, o nell’hic et nunc.

E’ questa suddivisione in disaccordo rispetto al disegno di terapia di Fonagy con il risultato che io, e verosimilmente non solo io, pur non essendo al corrente di altri, non metto necessariamente l’accento sul flusso di sentimenti che viaggiano fra terapeuta e paziente, dando così un ruolo preminente al transfert e al controtransfert. Ricordiamoci però che Fonagy parla e tratta di pazienti con un disturbo borderline.


DUE ESEMPI CLINICI

Racconto la storia e l’evoluzione della terapia nella giovane Miriam e di fare invece notare caratteristiche di pensiero e di terapia di una paziente più avanti negli anni che ha avuto un attacco di panico in occasione di uno stato di paura che poteva indurre in chiunque uno stato fortemente ansioso. Tale stato ansioso poteva a buon diritto indurre un attacco di panico, il che mi ha indotto a riflettere sulla possibilità che esista non solo un disturbo da attacco di Panico, ma anche un attacco di panico “reattivo”; in seconda istanza infatti Daniela non presenta problemi di mentalizzazione.


Miriam ha iniziato ad avere attacchi di panico nel Maggio di tre anni fa. Viene inviata al Servizio dal medico di base per importanti manifestazioni ansiose. Il medico psichiatra del Centro, mio tutor, identifica un Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) e prescrive farmaci, nello specifico un antidepressivo e un ansiolitico, e l’indirizza a me, come psicologa in tirocinio presso quel Centro, per colloqui psicologici di approfondimento della sintomatologia e della rete di relazioni.

Propongo a Miriam di vederla una volta alla settimana, per 50’, “contratto” che accetterà e che rispetterà fedelmente.

Ammetto di aver incontrato nella stesura di questa caso più di una difficoltà a dare unità e omogeneità al suo tessuto narrativo, depurandolo delle tante iterazioni e ridondanze in cui l’esposizione ha rischiato a più riprese di ingolfarsi. Due sono stati infatti gli ordini di cause che le hanno generate.

La prima difficoltà va ricercata nella insufficiente mentalizzazione da cui la paziente era affetta: infatti essa non riusciva a distinguere sia i propri sentimenti che quelli altrui e a pensare i propri pensieri. Poiché una correlazione di senso tra difetto di mentalizzazione e Disturbo da Attacchi di Panico non mi era allora ben nota, gran parte del tempo in seduta era dedicato al recupero di quello che era emerso la volta precedente per poter poi passare oltre.

Ciò rendeva problematica l’organizzazione del materiale in qualche cosa di omogeneo. Perciò la prima fase della stesura di questo caso ha assunto la forma di una serie di colloqui clinici, così come li avevo trascritti di settimana in settimana. A partire da questa frammentarietà di base ho dovuto poi rielaborare, non senza difficoltà, suddetto materiale per riuscire a costruire una “storia” della paziente e del processo terapeutico.

Un’altra difficoltà è nata dalla molteplicità dei nuclei problematici (controllo, stile di attaccamento, somatizzazione) emersi via via nel tempo. E’ stato necessario un lungo e lento lavoro terapeutico per cominciare a sciogliere questi nodi, ottenere una prima remissione dei sintomi e avviare la paziente alla costruzione di un sé meglio strutturato. Perciò lente e fragili, e spesso soggette a regressioni e stalli, sono state le conquiste con cui giorno dopo giorno è stata erosa l’area dei nuclei sopraddetti.

Alcuni episodi che Miriam riporta nei primi incontri mettono subito a fuoco con sufficiente chiarezza la fragilità dei confini del sé e i nuclei problematici sottostanti all’esplosione degli attacchi di panico. Appena ha “una piccola crisi”, che può preannunciare un attacco, Miriam convoca telefonicamente, nell’ordine che segue, prima la madre, poi il padre e infine il fidanzato per essere rassicurata; quando deve andare dal medico si fa accompagnare dalla madre, così come capita che si faccia accompagnare al Centro di Salute Mentale da un familiare; al fratello con il quale ha un rapporto possessivo, non concede, come vedremo, di avere una fidanzata. Tutto ciò dà una indicazione di come una rigida tipologia relazionale sia prevalente nella sua famiglia.

In un’altra seduta Miriam mi racconta di aver sentito “una forte vampata alla nuca” e, siccome non aveva mai provato prima tale sensazione, si è spaventata e ha chiamato i familiari secondo l’ordine consueto. Mette le mani avanti rispetto a qualsiasi mio intervento, mi anticipa dicendo che quando ha un attacco di panico non riesce a pensare a nulla se non agli aspetti fisici di quanto le sta succedendo, cioè non riesce a pensare che non sia nulla e si spaventa a morte. Non intervengo perché è ovvio che Miriam percepirebbe qualsiasi commento come un giudizio e quindi mi “limito” ad ascoltare il suo lungo sfogo sui sintomi fisici. Subito dopo essa parla del suo carattere, di come sia testarda, forte. Mi dice che secondo lei le vengono gli attacchi di panico perché “si è presa carico di troppe cose e adesso il fisico ne risente”.

Riaffiora anche qui il legame simbiotico con i suoi, per cui essa si è autoattribuita il compito di proteggerli di fronte a ogni evenienza: da una parte si sente colpevole nei confronti dei genitori perché con i suoi problemi li fa soffrire, dall’altra, appunto, si carica di troppe responsabilità e da ciò deriverebbe quella stanchezza fisica che innesca secondo lei l’attacco di panico. Vi è stata infatti un’inversione dei ruoli: Miriam ha “dovuto” essere lei il genitore, ha dovuto essere il “genitore” che conteneva i genitori reali recepiti come troppo fragili e che difatti non avevano potuto garantire alla figlia un attaccamento e un contenimento adeguati a fornire un sentimento di sicurezza.

Come si vede l’aspetto meramente fisico resta al centro dei primi tempi della terapia. In prima approssimazione ritengo di poter dire che, da un punto di vista psicopatologico, vi sia un sottostante attaccamento insicuro con il proprio caregiver e che pertanto il processo di separazione/individuazione non sia completato.

Come già accennato in altre parti dell’articolo mi viene in aiuto il concetto di terapia a “due tempi” di Monari (200,2007), in cui l’autore suggerisce nella prima fase, oltre che essere di supporto, di confrontare il paziente ogni volta che esprima il suo malessere come disturbo fisico a confrontarlo con il fatto che non è in grado di elaborarlo cognitivamente (alessitimia) e tanto meno emotivamente.

Nella seconda fase Monari propone di continuare il lavoro intrapreso nella prima e cioè di continuare a confrontare la paziente sulla sua capacità, o meglio incapacità, di mentalizzazione, finchè pian piano non si pongono le basi per lo sviluppo di quest’ultima.

Un esempio – a mio avviso toccante – di tutto ciò lo possiamo ritrovare in una seduta prossima alla fine della terapia, seduta nella quale Miriam mi sorprende comunicandomi che ha ripensato al suo passato, a quando era bambina e a come non potesse mai stare da sola. Le rimando che ciò mi richiama alla mente la sua incapacità attuale di “stare da sola”, anche per un’ora solamente.

Miriam annuisce e mi dice che anche secondo lei c’è una “sorta” di collegamento fra le due questioni. In seguito essa associa come, da bambina appunto, giocasse sempre con altri, ma mai da sola. Andava in cortile, o a turno a casa dei suoi amici, oppure erano loro ad andare da lei. Miriam comunque non restava a giocare in solitudine; quando la madre glielo proponeva, per farla stare in casa almeno un paio d’ore dopo i pasti, essa non accettava e le chiedeva invece: “Mi annoio, che cosa posso fare da sola?”.

Questa incapacità di Miriam nel potere – da bambina – stare da sola, offre un nuovo spunto sull’origine del suo nucleo problematico: possiamo ipotizzare cioè che essa non abbia in sé quella capacità immaginativa che ci permette di chiamare in causa gli altri senza che vi sia la loro presenza concreta. Sappiamo che tutto questo riguarda la capacità di introiezione e quindi lo sviluppo di adeguati processi di individuazione/separazione. Se tutti questi passaggi fossero avvenuti a tempo debito, oggi, o per meglio dire ieri, Miriam non sarebbe stata così deficitaria nell’utilizzo della propria funzione riflessiva; essa sarebbe stata cioè non solo in grado di giocare da sola, ma, per dirla con Winnicott (1971), sarebbe stata “semplicemente” in grado di “giocare”.

Mi riferisco qui in particolare alla capacità di plasmare la realtà con la propria fantasia, o alla capacità di stare da soli perché si è dapprima in grado di popolare il proprio mondo di oggetti transizionali, oggetti che in seguito potranno divenire, nel gioco, simboli; simboli dunque e non più equazioni simboliche (Segal, 1957).

Pertanto nel modo di giocare di Miriam e nella scarsa capacità immaginativa che in quell’attività essa manifestava, si intravedono i probabili segnali di un’insufficiente capacità di simbolizzazione, buon indice di una mentalizzazione scarsa o carente.

Nelle ultime sedute ripenso alla terapia, alle sue fasi, agli scogli, al suo procedere. Ammetto che il mio sentimento, soprattutto riguardo alla seconda fase della terapia, è di soddisfazione – quasi di “orgoglio” – per i risultati ottenuti.

Miriam, nell’ultima seduta, mi comunica che ha festeggiato da pochi giorni l’anniversario del primo attacco di panico: è il terzo anniversario, mi precisa, per i primi due anni sentiva solo la rabbia di “essere ingabbiata” in un malessere che non sentiva suo e che letteralmente non le lasciava alcun respiro. Quest’anno è stato diverso.

P: “Mi sono resa conto di quanto questo star male in fin dei conti mi abbia permesso una comunicazione, che ben presto si è trasformata in un confronto con l’altro ; ho compreso che tutto ciò mi ha portato a essere la Miriam di oggi, e cioè un essere umano che è per tanti aspetti uguale a quello di prima, ma che si conosce molto di più e tante volte si accetta per come è”.


Daniela, una donna di una sessantina d’anni, completamente autosufficiente, vive in una casa isolata in montagna dove le nevicate sono frequenti ed abbondanti. Nell’anno in cui la seguo in terapia, inviatami da un collega psichiatra con la diagnosi di un Disturbo da Attacchi di Panico e con una terapia farmacologica che comprende benzodiazepine e antidepressivi serotoninergici, le nevicate sono state così abbondanti che ripetutamente e per interi giorni non ha potuto attraversare il cortile neanche per aprire il cancello almeno per fare la spesa. E’ in occasione di una di queste nevicate, mi racconta, che ha avuto il suo secondo attacco di panico (il primo le era occorso una ventina di anni fa e per questo era entrata in terapia).

Quando la vedo è molto impaurita, non riesce a mangiare perché prova disgusto del cibo (elemento che al momento sono indecisa se considerarlo un disturbo psicosomatico o invece di conversione), non riesce a vivere così isolata, presenta una flessione del tono dell’umore.

Con il procedere della terapia noto però che Daniela non ha problemi nell’identificare i propri stati d’animo e a trasformarli in domande e riflessioni: manca quindi di quello che è stato definito come una delle caratteristiche fondamentali del Disturbo da attacchi di Panico e cioè la mancanza, o insufficiente, mentalizzazione. In più, mi capita sempre più spesso di riflettere, con il procedere della terapia, che questo suo attacco di panico è stato “sollecitato” da una situazione reale che poteva trasformarsi in un’emergenza qualora avesse avuto bisogno di un aiuto da parte di qualcuno.

Oltre a tutti questi elementi che testimoniano a sfavore di un attacco di panico sì, ma non di un disturbo in tal senso, Daniela con il passar del tempo mi mostra sempre di più le sue capacità di “sentire le proprie emozioni e pensare i propri pensieri”: arriverà infatti alla conclusione che tutto sommato questo “attacco” è stato utile perché l’ha costretta a riflettere sulla necessità ora da lei sentita come impellente di non vivere più così isolata, perché la solitudine è diventata un vero problema per lei. Solitudine che non necessariamente dovrà cessare con la ricerca di un compagno, ma di avere più vicine le sue amiche, dei cinema, dei circoli culturali.

Pertanto mentre “accompagnavo” Daniela in questa tranche di terapia si è insinuata sempre di più nella mia mente la necessità di distinguere fra un caso caratterizzato da singoli attacchi di panico, per di più reattivi, dai casi in cui è presente un Disturbo da Attacchi di Panico. Che io sappia nessun autore si è ancora posto questo interrogativo ed è per questo che ho voluto mettere a confronto i succitati casi.


CONCLUSIONI

E’ stata finora lasciata fondamentalmente implicita la convinzione che dovremmo promuovere il mentalizzare nella pratica clinica perché è adattativo. Un mentalizzare capace di ascolto ci mette in condizione di apprendere e di crescere per mezzo delle relazioni, comprese quelle psicoterapiche.

Dovremmo comunque anche tenere presente che, pur essendo potenzialmente positivo, il mentalizzare, come molte altre abilità, può essere utilizzato tanto per il male che per il bene. Gli psicopatici sono molto abili nel decifrare gli stati mentali altrui, ma, non provando senso di colpa o di riguardo, lo usano in modo manipolatorio e a fini di sfruttamento. I sadici traggono piacere dal tormentare gli altri e anche questo richiede una certa capacità di sintonizzarsi con gli stati affettivi altrui. Lo stesso i terroristi con le loro vittime.

Psicopatia, sadismo e terrorismo implicano cioè una profonda, ma parziale, abilità empatica e contemporaneamente una mancanza di empatia: infatti le persone che presentano questi tratti, non sono in realtà capaci di identificarsi con l’angoscia degli altri.

Inoltre, come molte altre competenze, il mentalizzare può essere utilizzato non solo per fini sbagliati, ma anche in modo eccessivo. Ad esempio, un bambino cresciuto in un ambiente domestico violento o abusante può diventare troppo attento agli stati mentali degli altri, per poter anticipare o evitare il pericolo. Viceversa un bambino può acquisire una particolare sensibilità, una sintonia profonda con stati affettivi dei caregivers, per esempio con l’umore depresso di un genitore: in questo caso probabilmente diventerà psicoterapeuta o comunque intraprenderà un’altra professione di aiuto agli altri (Ferenczi, 1929, 1930; Miller, 1979).

Allo stesso modo, la sensibilità estrema per gli stati mentali propri può essere angosciante e controproducente e condurre a una ruminazione ansiosa e depressiva in cui ci si impantana: in questi casi va persa una capacità di mentalizzazione flessibile.

Per ragioni di completezza vorrei qui accennare brevemente ad alcune delle critiche a cui la teoria e la pratica della mentalizzazione sono state e sono sottoposte: c’è chi afferma che in esse non vi è niente di nuovo, dato che rappresenta una condensazione di nozioni più tradizionali come la capacità mentale psicologica, l’empatia e di altre più recenti, come la pienezza della consapevolezza mentale (mindfulness) e l’intersoggettività; altri ritengono infine che può sembrare che vi sia poca differenza tra il promuovere la capacità di mentalizzare e le pratiche professionali fondate sul cognitivismo.

La bibliografia deve sempre riguardare solo testi specifici citati, non genericamente autori ipernoti di riferimento


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