Archeologia dell’Inconscio

Qualche giorno fa ho fatto il bagno all’ultima arrivata a casa, Zoe, una Sharpei di 1 anno e mezzo che ho adottato dalla Sicilia e che, insieme agli altri due pelosi di casa, forma una bella muta a quattro zampe. Era la prima volta che faceva il bagno da quando, un mese fa circa, la abbiamo accolta a casa perché volevamo prima darle il tempo di ambientarsi. In doccia è stata abbastanza tranquilla ma, non appena ho iniziato ad asciugarla con un semplice asciugamano, le è venuto un vero e proprio attacco di panico. Ha iniziato a correre all’impazzata per la casa, seminando acqua in ogni dove, abbaiando e ringhiando a chiunque incontrasse, umano o peloso che fosse. E’ addirittura caduta dalle scale nella foga di scappare senza sapere da cosa o dove. La chiamavo e cercavo di fermarla ma non ci riuscivo perché era completamente fuori controllo. Solo quando l’ho portata in giardino e sono riuscita a prenderla in braccio, nonostante i suoi 20 kg, ha iniziato a calmarsi, stretta in un abbraccio forzato e avvolta in un asciugamano. Piano piano ha ripreso a respirare ad un ritmo normale, il cuore ha rallentato i battiti e tutto il corpo si è rilassato.

L’unica volta nella sua vita, prima di questa doccia, in cui Zoe è stata lavata, è stata prima di partire dalla Sicilia, quando ha lasciato la famiglia che la aveva comprata a soli due mesi e che poi non la voleva più, come un vecchio giocattolo di cui sbarazzarsi. Zoe ha collegato le immagini della doccia a quello che è successo dopo, l’abbandono, il viaggio infinito in un camion, la paura di non sapere cosa stesse accadendo e ha avuto un attacco di panico.

Succede anche a noi che da un ricordo, da una sensazione, da una situazione apparentemente “neutra” si generi il panico.

Spesso in terapia arrivano persone che soffrono di attacchi ansia o di panico (nella sezione dedicata agli articoli di questo sito c’è un articolo in cui spiego dettagliatamente la differenza tra ansia e panico\) ma non hanno idea di che cosa li scateni e non riescono a trovare un filo rosso tra i vari attacchi. Per comprendere la genesi di questi vissuti è fondamentale fare un lavoro da archeologi, ovvero andare a scavare nell’inconscio e capire da dove nascono. Succede che, senza che ne siamo consapevoli, un odore, una sensazione, un’atmosfera si colleghino nella nostra mente a qualcosa che abbiamo vissuto e da lì origina il panico, anche se di fatto ci sembra che non ci sia alcun motivo perché, appunto, non siamo consapevoli del ricordo.

Il nostro inconscio parla una lingua ben diversa da quella a cui siamo abituati, la logica e la causalità non funzionano con lui: l’inconscio è la nostra parte più profonda ed autentica, più viscerale, dove le parole sono sostituite da immagini, sensazioni ed atmosfere. Se cerchiamo quindi di comprendere l’eziologia del panico seguendo il ragionamento logico probabilmente finiremo per essere frustrati e non arrivare comunque a nessuna risposta. Dobbiamo quindi lavorare per immagini e sensazioni, seguendo la tecnica inventata da Freud delle libere associazioni, finché non si arriva al nocciolo del panico. Sembra quasi facile detta così ma si tratta di un vero e proprio lavoro che si fa in terapia, scendendo piano piano nei meandri dell’inconscio per renderlo, gradualmente, conscio, ovvero consapevole.

Solo conoscendo l’origine del panico possiamo fare poi un lavoro di elaborazione, mettere delle parole laddove ci sono solo delle sensazioni angoscianti per cambiare la narrazione e dunque renderla meno spaventosa.
Pensiamo spesso di riuscire a controllare tutto e che dunque un attacco di panico sia un fallimento. Accanirsi a cercare di capire qualcosa parlando una lingua diversa è inutilmente faticoso: a volte dobbiamo solo prendere atto che non siamo sempre in grado di avere il controllo, che non tutto dipende unicamente da noi e dalla nostra capacità o incapacità di gestire la vita ma che ci sono, invece, delle dinamiche a noi ancora sconosciute per comprendere le quali abbiamo bisogno di un aiuto esterno. Andare in terapia, in questa visione, non è un fallimento anzi, il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, è il non rendersi conto di non poter sempre fare tutto da soli e quindi il non chiedere aiuto, reiterando in strade già percorse, senza esito.
dott.ssa Giulia Causa

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