Buongiorno Ezia, ti leggo con molta attenzione, e quello che arriva è il dolore di una persona che ha imparato presto a sentirsi “di troppo”, non vista, messa a confronto invece che accolta. Non c’è nulla di “pazzo” in ciò che descrivi. C’è una storia di ferite ripetute che non hanno mai trovato uno spazio sicuro dove essere ascoltate.
Crescere sentendosi costantemente paragonata, soprattutto da una figura così centrale come un genitore, lascia un segno profondo. Quando un bambino sente dire, anche solo implicitamente, “tu vali meno”, non ha gli strumenti per difendersi: accumula, come dici tu. E quel “non mi accetto” non nasce da un difetto tuo, ma da uno sguardo che non è stato capace di vederti per quella che eri. Quel confronto continuo si è trasformato, col tempo, in una voce interna che oggi continua a ripeterti le stesse frasi. Non è la realtà: è una ferita che parla. Tu dici una cosa molto importante: sai che ci sarà sempre qualcuno più bravo, più bello, più capace. Questa è una consapevolezza adulta e lucida. Ma il punto non è quello. Il punto è che nessuno ti ha insegnato che tu puoi valere anche senza essere “la più”. Che puoi essere riconosciuta non solo per ciò che fai bene, ma per chi sei. Quando vieni vista solo come “quella brava con la tecnologia” o “quella che scrive bene”, è come se una parte di te restasse ancora invisibile. E questo riapre la ferita antica.
Il blocco che senti rispetto alla scrittura non parla di incapacità. Parla di paura. Paura di esporti, paura che quel giudizio antico torni a colpirti: “non sei abbastanza”. Pubblicare un libro, in fondo, significa dire al mondo “eccomi”. E se dentro di te c’è ancora una bambina che ha imparato che mostrarsi porta dolore, è comprensibile che si fermi.
Rispetto agli scoppi emotivi, agli attacchi di panico e all’autolesionismo: non sono capricci né follia. Sono il corpo che esplode quando per troppo tempo la mente ha taciuto. Accumulare, osservare, non dire… prima o poi chiede spazio. Il problema non è che senti troppo, ma che hai imparato a non avere diritto di sentire. Quando poi arriva un commento come quello su tua amica, soprattutto dopo un tradimento mai davvero elaborato, il messaggio interno diventa devastante: “non sono mai stata la scelta”. È una ferita di valore, non di gelosia.
Alla domanda “cosa posso fare?”, ti rispondo con molta onestà e delicatezza:
Quello che provi ha bisogno di uno spazio tuo, protetto. Un percorso psicologico non perché tu sia “sbagliata”, ma perché hai portato da sola pesi che non erano tuoi. Le ferite dell’infanzia non si superano con la forza di volontà: si curano nella relazione, una relazione sicura.
Imparare a distinguere la tua voce da quella interiorizzata di tuo padre. Non sei tu a dirti che non vali: è una voce antica. Questo è un passaggio fondamentale per iniziare a costruire un’immagine di te più reale e più gentile.
Riconoscere che l’autolesionismo è un segnale di allarme, non una colpa. Significa che in certi momenti sei sopraffatta e non hai altri strumenti. Questo merita attenzione e cura, non giudizio.
Dare dignità al tuo desiderio di scrivere. Non perché devi essere la migliore, ma perché scrivere è già un modo in cui tu esisti, respiri, ti racconti. Anche solo pensare a piccoli passi, senza l’obbligo di “pubblicare”, può essere un inizio.
Vorrei dirti una cosa con chiarezza:
il fatto che tu soffra non significa che tu sia debole. Significa che sei sopravvissuta a lungo senza essere davvero vista. E oggi una parte di te chiede, finalmente, di essere riconosciuta.
Non sei “mai abbastanza”. Sei abbastanza adesso, anche mentre piangi, anche mentre dubiti, anche mentre ti senti spezzata. E no, non devi farcela da sola. Se vuoi, posso aiutarti a capire come cercare un supporto adatto a te o come iniziare a prenderti cura di queste parti ferite, un passo alla volta.
Un caro saluto