Il contesto relazionale della vergogna. Due stili relazionali: la modalità di attribuzione globale specifica e quella interna esterna

La vergogna, così come i suoi derivati (quali un invalidante vissuto di impostura, senso di inadeguatezza, invidia generalizzata, difficoltà nel sostenere un ruolo o uno status al cospetto di un altro vissuto come autorevole e potente, fobia sociale) è un’emozione potente , spesso poco attenzionata, della quale c’è ancora molta difficoltà a parlare.

Potremmo dire che ci si vergogna nel condividere stesso il vissuto di vergogna associando ad esso sfumature negative che rimandano a debolezza, infantilismo, inadeguatezza ad un contesto dato.

Eppure la vergogna c’è, e ce n’è tanta, spesso è implicita, non del tutto consapevole, ed è in grado di condizionare la qualità delle nostre relazioni affettive/sociali e lavorative, oltre ad incidere sul rapporto che abbiamo con noi stessi, sulla nostra capacità emotiva di stare al cospetto dell’altro in modo autentico ed appagante.

M. Lewis (1995), sulla scia di autori come Beck A.T. (1967, 1979) e Seligman M.E. (1975) distingue due modalità cognitive di attribuzione causale nella genesi della fenomenologia delle emozioni: l’attribuzione causale globale / specifica e quella interna/esterna. 

Vediamo il primo dipolo. 

Definisce la globale come

“ […] l’inclinazione a chiamare in causa l’immagine complessiva di sé. Succede così che per una qualunque singola trasgressione alcuni individui, in certi casi, diano un giudizio di insieme sul proprio conto” (Lewis  M.,1995, p. 97)

È questo il caso della vergogna

“L’attenzione non si appunta sul comportamento che abbiamo tenuto, ma sull’intera nostra identità personale. Chi opera un’autoattribuzione globale si concentra su di sé e non sulle proprie azioni: così ripiegato in sé stesso, è incapace di agire, mentre è portato a nascondersi o a scomparire” (ibid. p. 97)

L’esempio lampante è quello che emerge da un confronto tra un vissuto di colpa e quello della vergogna. Nel primo caso il giudizio viene espresso in merito a ciò che un individuo ha fatto, nel secondo caso il giudizio è inesorabilmente su ciò che l’individuo è, o sente di essere. 

È una differenza sostanziale che, secondo Lewis , può essere colta  nelle possibili declinazioni dei vari stili di personalità come , ad esempio, dimostra l’autoattribuzione globale nelle persone inclini alla depressione.

Le origini di una tendenza all’autoattribuzione globale spesso si rintracciano nelle modalità relazionali che hanno caratterizzato l’ambiente di vita del bambino, in particolare all’interno del contesto familiare. Genitori che spesso fanno ricorso a strategie di attribuzione globale, a loro volta sono stati visti e valutati  prevalentemente con questa modalità all’interno del loro nucleo di appartenenza e tendono implicitamente a ripetere queste modalità attributive. Prendiamo l’esempio di un genitore che corregge il figlio relativamente ad un comportamento disfunzionale in un contesto dato, come ad esempio aver avuto una reazione eccessiva durante una partita di calcio. Egli può attribuire  a lui come persona la causa del fallimento dicendo “sei uno stupido!” piuttosto che dire “ti sei comportato stupidamente” o “ potevi comportarti diversamente” ponendo l’accento sul gesto e non sulla persona. Nel primo caso è il sé totale ad essere messo in discussione e disconfermato.

Un’importante conclusione alla quale giunge Lewis M. è che le bambine, rispetto ai bambini, sono più spesso oggetto di attribuzioni globali da parte delle figure di riferimento, tra le quali genitori, insegnanti, parenti e che comunque sarebbe implicita, nelle aspettative culturali e  sociali condivise, una valutazione attraverso attribuzione globale delle donne, più di quanto avvenga nei confronti degli uomini.

“Le bambine hanno meno problemi di condotta, nell’insieme sono più impegnate e coscienziose  dei maschi nel lavoro scolastico e in media frequentano con migliore profitto; tuttavia sono più inclini ad attribuire qualunque cattivo risultato  alla propria incapacità […] le critiche dell’insegnante alle bambine vertono quasi sempre sull’incapacità e sulla scarsa comprensione del compito (attribuzione globale) mentre ai maschi si rimproverano in genere mancanze specifiche e di natura non intellettuale” (Lewis M. , 1995 pp. 140 -141)

M. Lewis cita un esperimento da lui condotto insieme a Steve Alessandri (1990) condotto con padri e madri in presenza di bambini di entrambi i sessi sul fenomeno della modalità attributiva. I genitori dovevano giocare con i propri figli e sottoporre loro dei compiti da risolvere. Le varie risposte date dai genitori ai figli vennero registrate sotto quattro categorie: positive, negative, globali, specifiche. Dai dati emersi dall’esperimento si notò un’alta correlazione tra stile attributivo globale (positivo e negativo) da parte del genitore e tendenza alla vergogna da parte del figlio nel successo e nell’insuccesso del compito.

Inoltre si evinse una sostanziale differenza nello stile dei padri e delle madri: le attribuzioni specifiche erano più frequenti da parte paterna, e comunque entrambi i genitori vi ricorrevano più per i maschi

“Quando l’attenzione era concentrata sul compito, commenti paterni del tipo , <è così che si fa>, erano più numerosi con i maschi che con le bambine: a quanto pare i padri adottavano un comportamento differenziato a seconda del sesso. Anche da parte materna, questo tipo di attribuzioni specifiche era più frequente con i maschi. In assoluto, la frequenza di questi commenti puntuali, focalizzati sulle singole azioni, era massima per i padri con i maschi e minima per le madri con le figlie. In quest’ultima situazione i commenti che si sentivano più spesso erano del tipo <bravissima!> , .”  (Lewis M., 1995, p. 142)

È molto interessante notare che un’attribuzione prevalente di tipo globale anche positiva (ad esempio ) possa facilitare nei bambini un sentimento di vergogna. 

Secondo Lewis sono varie le modalità, spesso meno esplicite, dell’attribuzioni globali al sé ad incidere sulla tendenza a sperimentare vergogna

“Nell’educazione dei bambini, i genitori fanno uso di vari metodi, dal ragionamento all’umiliazione, al ritiro dell’amore, e forse questi metodi, ai fini delle differenze individuali nei sentimenti di vergogna, sono non meno importanti dell’uso esplicito di attribuzioni globali” (Lewis M., 1995, p. 144)

Lewis tiene a sottolineare come il ritiro dell’amore e il disgusto siano modalità di attribuzione globale molto diffuse nelle tecniche educative

“Ho osservato spesso l’espressione disgustata dei genitori quando il bambino fa qualcosa che disapprovano: dice per esempio la mamma sollevando le narici e il labbro superiore. Questa mimica può balenare per un attimo, ma i bambini la percepiscono:quando vedono la faccia disgustata dei genitori, distolgono lo sguardo di colpo e appaiono per un momento inibiti: comportamenti questi che con molta probabilità rispecchiano un sentimento di vergogna. La mimica di disgusto è uno strumento efficace di socializzazione mediante la vergogna, oltre ad ammonire il bambino a non ripetere quell’azione” (Lewis M., 1995, p. 146)

Secondo Lewis la mimica di disgusto non solo segnala un giudizio negativo riguardo ad una cosa da fare o meno, ma costringe anche a un’attribuzione globale. È molto difficile per il bambino discriminare lo sguardo disgustato della madre rivolto verso di lui in una circostanza, da una attribuzione specifica, circoscritta. 

Quello che passa in queste interazioni, molto probabilmente, è la possibilità di essere oggetto di disgusto, non solo in merito ad una cosa da fare ma di poterlo essere comunque agli occhi di qualcuno di vitale importanza per la sopravvivenza del sé, come una madre. 

La tecnica del disgusto è molto frequente ma se alternata ad altre modalità può risultare efficace. È però evidente che il ricorso ripetuto, in via preferenziale, a questa modalità, può avere delle ripercussioni su un’inclinazione del bambino a vergognarsi eccessivamente.

Anche la tecnica del rifiuto dell’amore costringe il bambino a confrontarsi con attribuzioni globali, da parte dei caregivers, in un clima di intensa angoscia

“ Il rifiuto dell’amore è per sua natura una messaggio intensamente minaccioso, tale da impedire al destinatario di concentrare l’attenzione sulle cause precise che l’hanno determinato. Esso produce ovviamente un’attribuzione interna di responsabilità ma, dato che riguarda la persona intera - - l’attribuzione non può essere che globale. La vergogna risulta quindi anche in questo caso dallo stesso processo cognitivo di attribuzione descritto fin qui ”  (Lewis M., 1995, p. 150)

Il bambino crescendo, all’interno di relazioni significative,  sviluppa in senso complementare con la figura di accudimento, un senso di sé e dell’altro. Il sentire ritirare l’amore, o la semplice minaccia, lo fa sentire indesiderato da chi si prende cura di lui. Tramite l’auto attribuzione globale il passo sarà breve nel portare il bambino a sentirsi potenzialmente  indesiderabile,  manchevole, inadeguato all’interno delle relazioni. Con queste premesse sarà probabile per il bambino sviluppare una maggiore inclinazione a sperimentare vissuti di vergogna. Anche in questo caso, l’uso straordinario di questa tecnica educativa, supportata da un corredo emotivo e mimico sintonizzato alle esigenze psicologiche del bambino, potrà essere efficace, ma se viene usata per via preferenziale, in modo violento, non tenendo conto dei vissuti emotivi di “indesiderabilità” del bambino, potrà facilitare il consolidarsi di una personalità incline alla vergogna.

Donna Orange (2005) mette in rilievo come le punizioni corporali, o comunque riferite al corpo, come tenere un bambino chiuso in uno stanzino, facilitino processi di auto attribuzione globale, e quindi la probabilità di sviluppare una particolare sensibilità alla vergogna

“La famiglia , per esempio, è di solito il luogo dove le capacità di vergognarsi del bambino piccolo, divengono mondi di vergogna. Le cosiddette punizioni corporali, per esempio, racchiudono la comunicazione non che un bambino ha fatto qualcosa di sbagliato che deve ripagare (colpevolezza), ma piuttosto che il bambino è cattivo. Il processo di umiliazione diviene un mondo di vergogna in cui è portato l’intero essere di una persona, l’ heideggeriano Befindlichkeit, cioè, l’emozione come abitato mondo del vissuto” 

Per D. Orange l’origine della vergogna va cercata in un contesto familiare che non solo non fornisce le capacità di autoregolazione necessarie per far fronte all’umiliazione, ma che inibisce attivamente lo sviluppo della capacità di assumere  una prospettiva alternativa su di sé. 

Caratteristiche quindi del vissuto di vergogna sono, da una parte un processo di giudizio autoattributivo globale su di sé, dall’altro saranno modalità di attribuzione interna.

Arriviamo qui al secondo tipo di modalità attributiva evidenziata da Lewis .

Modalità attributive di tipo interno tendono a porre in connessione causale il soggetto agli eventi della vita, spesso da lui solo parzialmente dipendenti. Accadimenti piacevoli o spiacevoli, più o meno fortuiti, possono essere fatti risalire attraverso rimandi causali al soggetto stesso di esperienza. Posso, ad esempio, attribuire ad una mia intenzione, o capacità di calcolo, la vincita al gioco della lotteria, così come l’accadere di eventi spiacevoli , come incidenti o contrattempi. 

Si può parlare di attribuzione interna come modalità prevalente, stile che caratterizza una personalità nel suo interfacciarsi ad un ambiente dato, senza però necessariamente sconfinare su terreni psichici di tipo psicotico, dove l’autoreferenzialità attributiva diviene rigida e immutabile nei contenuti e nelle modalità associative di pensiero.

Scrive Lewis 

“il fatto che un individuo tenda ad addossarsi le colpe o a scaricarle all’esterno è importante nel determinare se reagirà con la vergogna in caso di insuccesso. Quanto più si riesce ad incolpare cause esterne, tanto più è facile evitare la vergogna” (Lewis M., 1995, p. 134)

Cita un esperimento condotto con Steve Alessandri (1990) di osservazione delle modalità attributive interne/esterne in genitori di bambini di 3 anni. Si è notato che davanti al medesimo compito genitori diversi interagivano con i figli in modo prevalente secondo una delle due modalità. C’era quindi chi diceva “Lo vedi il canestro è troppo stretto, è difficile metterla dentro” attribuendo l’insuccesso del bambino a cause esterne, ed altri che invece redarguivano il figlio esclamando “devi esercitarti di più se vuoi mandare la palla nel canestro!”. Chiaramente è difficile che una delle due modalità sia esclusiva. Esse sono invece da intendersi come prevalenti in determinate situazioni e spesso anche uno stesso individuo passa da una all’altra a seconda della riuscita del compito. 

Lewis conclude dicendo che si assiste, comunque, ad una prevalenza di modalità auto attributiva interna nelle donne e nelle bambine, in caso di insuccesso, attribuendo i successi agli altri; il contrario avverrebbe per i maschi.

 

Bibliografia

Alessandri S., Sullivan M., Lewis M. (1990) Violation of aspctancy and frustration in early infancy, in Developmental Psychology n. 26

Beck A. T. (1967) Clinical experimental, and theoretical aspects. NY, Harper and Row

Lewis M. (1995) Il sé a nudo. Ed. Giunti

Orange D. (2005) Atti del Convegno Internazionale Isipsé “ O della propria , o dell’altrui vergogna – errori e fiducia nei contesti psicoanalitici

Seligman  M.P. (1975) Helplessness: On depression, development and death. San Francisco. Freeman

 

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