Skullbreaker e Blackout challenge: come aiutare i nostri figli a gestire il mondo del web?

Antonella aveva 10 anni. Il 20 gennaio si è legata al collo una cintura che aveva fissato al termosifone, una prova di soffocamento estremo.

Questo fatto di cronaca istigato dal web non è isolato. Balletti, canzoni e prove di abilità assolutamente innocue, ma anche più pericolose come nel “Skullbreaker challenge”, con il quale si cerca di “rompere la testa” con uno sgambetto, rischi medici (assunzione di saponi, medicinali, sostanze di uso comune come cannella, sale, bicarbonato), fino a chiedere di legarsi una cintura al collo per provocare asfissia come nella “Blackout challenge”.

Come psicologa, ma soprattutto come mamma, ciò mi porta a fare una serie di riflessioni e a pormi tante domande, in particolare, mi chiedo: cosa sta accadendo ai nostri ragazzi e cosa possiamo fare per prevenire eventi simili ora e nel futuro? Di chi è la responsabilità?

Nel mio lavoro di psicologa, nel quale ogni giorno ho a che fare con le emozioni più profonde delle persone, ho imparato che generalmente non esiste il bianco o il nero, ma esistono tante sfumature nella realtà che possono spiegare il perché di un “sentire” e quindi di un comportamento, come quello della bambina di Palermo.

Come genitori è importante essere presenti dal punto di vista emotivo: dobbiamo far sentire al bambino che vediamo e comprendiamo il suo mondo interiore, che le sue emozioni sono importanti, che comprendiamo ed empatizziamo con ciò che sente, come adulti possiamo e dobbiamo essere dei “traghettatori” nel mare delle loro emozioni. Con strumenti adatti all’età naturalmente, il gioco e le favole per i più piccoli, la parola per i più grandi.

È innegabile che eventi del genere accadono a bambini e ragazzi che sono inseriti in un contesto di solitudine affettiva. Per un ragazzino che si sente forte, amato ed apprezzato per ciò che è, il web è un insieme di opportunità, ma se si sente insicuro e fragile, il webdiventa un rischio importante che potrebbe portarlo anche a gesti estremi.

Dobbiamo chiederci: da che cosa dipendono la forza e l’autostima di un bambino, piuttosto che l’insicurezza e la fragilità? La sicurezza, la forza, la stima di sé sono caratteristiche congenite o sono apprese nel corso del tempo dai nostri bambini?

Per quanto è innegabile una certa predisposizione caratteriale al momento della nascita, è altrettanto innegabile che l’ambiente familiare in cui il bambino cresce, i messaggi che riceve dai genitori o da chi se ne prende cura e i genitori stessi, quali modelli di riferimento, fanno la differenza nell’avere un domani un figlio con una scarsa o con un’alta autostima. Nessun ragazzino nasce con manie compulsive o suicide, tutti hanno voglia di vivere.

E, allora, come possiamo aiutare i nostri figli a crescere sicuri di sé e con un’alta autostima?

Uno dei pilastri per aumentare l’autostima è che non si può donare, ma va guadagnata[1]. Da questa logica diviene importante accompagnare i nostri figli a crescere forti e sicuri di sé, lodando i risultati positivi, accettando le loro fragilità e dimostrandogli amore e affetto con i comportamenti sempre, ponendoci per loro obiettivi realistici, concedendogli di fallire, facendogli vivere anche piccole fatiche, evitando di risolvergli i problemi in modo da alleggerirgli il carico[2].

Queste semplicissime strategie sono anche una forma di prevenzione per tantissimi adolescenti, che poi alle medie si chiudono e per i quali diventa sempre più difficile fidarsi di qualcuno.

Da non dimenticare un altro importante pilastro: per coltivare un’autostima forte e salda nei figli bisogna che siano i genitori per primi a lavorare per avere un’immagine positiva di sé stessi per fungere da esempio, avendo comportamenti e valori positivi, come dico sempre ai miei pazienti, prima di tutto devi avere un rapporto sano con te stesso, prima di pretenderlo dagli altri.

 
[1] G. Duclos, L’autostima. Passaporto per la vita, San Paolo Editore, Cinisello Balsamo 2007.

 
[2] N. Branden, I sei pilastri dell’autostima, Tea, Milano 2006.

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