In pensione... E poi?

Lo spunto per questo scritto nasce dal colloquio avuto con un cliente pochi giorni fa.
A onor del vero, la tematica che affronterò non mi era nuova, ma quella seduta mi diede da pensare parecchio una volta tornato a casa.
Sempre più clienti mi parlavano che non vedevano l'ora di andare in pensione, e poi gli stessi mi riferivano che, una volta iniziata, iniziavano a sentirsi depressi.
C'erano poi uomini, donne, non per nulla sereni di aver smesso di lavorare.
Altri avevano terrore di smettere, altri ancora si sentivano "pesci fuor d'acqua" quando in azienda li festeggiavano per l'ultimo giorno.

"Vedrai, ora inizia il divertimento! Non farai nulla e avrai il portafoglio pieno!"
"Beato te che non dovrai più svegliarti all'alba. Addio tangenziale e colonne, benvenute ferie nei mesi più strani..."
"Ma di che ti lamenti? Un anno fa eri qui a piagnucolare che non avevi tempo per stare coi tuoi nipotini: ora avrai tutto il tempo che desideri!"
Potrei continuare, ma vado oltre. Discorsi simili potete immaginarli da soli. O averli già ascoltati "in presa diretta".

Andare in pensione è un momento drastico di cambiamento:
si cambiano abitudini, si inizia ad occupare il tempo in modo diverso, spariscono i gesti quotidiani che ci hanno accompagnato per anni.
A pensarci bene, non avere più a che fare con un capo rompiscatole, con pranzi o cene dai minuti contati, alle levatacce sono aspetti positivi.
La nostra mente guarda questi, infatti.

Ma ignora il resto.

Ignora - forse - il concetto più importante: il lavoro identifica noi stessi, chi siamo.
Toglierlo vuol dire togliere dignità alla persona. Senza un lavoro, l'identità si confonde con le altre e non sa darsi una sua collocazione nel mondo.
Pensate ad un padre di famiglia: licenziatelo e capirete il dramma che sta vivendo perché sa che deve dare cibo, soldi e un esempio ai figli, ma si sente smarrito. Perso. Non sa nemmeno più chi è, e si vede catapultato in ruoli che non sa più gestire. Lo stesso vale anche per le donne, sia ben chiaro.
Togliere il lavoro prima dell'età definita "pensionabile" è una forma di tortura.
Si dice che nel regime sovietico di qualche decennio fa si usava questa pratica per fare in modo di estromettere senza commettere un diretto omicidio figure scomode nella fabbrica, nella società. Nel regime sovietico di allora, tutti lavoravano: cosa poteva accadere se quella persona veniva lasciata a casa? Il dolore era così forte che poteva ricorrere al gesto estremo.
Gli anni sono cambiati, i muri crollati, i regimi... hanno cambiato solo nome. Ma la situazione rimane la stessa: senza lavoro l'identità subisce un grosso trauma. 
Accusa il colpo.

Facciamo uno sforzo d'immaginazione: tornate a quando eravate alle scuole dell'obbligo. Tornate al momento del compito d'italiano, quando la maestra o il professore saliva in cattedra per darvi il titolo del "Tema". 
Paradossalmente, l'argomento che più incuteva timore era quando non dava titoli. "In bianco". L'alunno doveva scegliere un argomento e riempire le 4 o più pagine dei fogli protocollo.
Non so voi, ma io mi sentivo smarrito. Dovevo tirar fuori un argomento serio, che conoscessi bene, articolare una serie di concetti e contenuti e poi scriverli in modo logico, nero su bianco.
Andare in pensione riprende gli stessi meccanismi mentali. 
Dobbiamo ri-crearci un obiettivo, pianificare la vita secondo azioni logiche e consequenziali dettate da noi. Non c'è nessun professore che ci darà un voto, e saremo noi i nostri capi delle giornate a venire. Si, c'è il partner, ma con questo si può trattare. Entrambi siamo "boss" e siamo parte attiva nella vita di famiglia.
Tra i 60 e i 70 anni poi il fisico c'è ancora: qualche dolore, ma non così grave - sempre che non insorga qualcosa, ma su questo meglio non pensarci, onde evitare di chiamar sciagure.

In questi momenti, quando sento i racconti di queste donne, di questi uomini, mi domando spesso che significato abbia avuto per loro la vita durante gli anni di lavoro.
Le storie che emergono mi fanno spesso tremare le membra: si parla di "lavoro" con aggettivi e nomi confusi, nebulosi, poco chiari. Mi rendo conto che venti-trent'anni sono volati via a fare qualcosa di non ben specificato. Ore e ore passati a riempire a loro volta ore e giornate. Riempire di un qualcosa di vago. Qualcosa che servisse a comperare una casa e cibo e far studiare i figli. Aprire un mutuo, accumulare debiti, diventare dipendenti da una banca, da un affittuario. La volontà, in quegli istanti, era annullata.
I sogni di bimbe e bimbi infranti. 
La vita si apriva agli occhi appena nati di molteplici bellezze, cose da fare, percorsi da intraprendere: si vedeva una farfalla e avremo voluto imitarla, diventando un giorno una ballerina. Vedevamo gli abiti unti del papà tornare a casa e imitarlo un giorno, diventando anche noi come lui, magari dentro una fabbrica enorme a spostare macchinari con potenti ruspe, gru, o guidando autotreni grandi come case.

Se ci fate caso, la narrazione di una vita di una persona segue tre gruppi concettuali di base: si nasce e si va a scuola, si lavora, si diventa vecchi.
All'Università mi restò parecchio impresso quando studiai, per l'esame di Psicologia generale, il ciclo del sonno: alla fine dei nostri giorni avremo dormito per più di un terzo delle nostre giornate. Quindi viviamo la giornata per lo più incoscienti, in quanto impegnati a ronfare o a pisolare. Solo i gatti fanno meglio di noi (credo).
Toglieteci le ore che passiamo nel mangiare, capite che ci rimane ben poco di come passiamo a vivere la vita. Specie se gran parte di quel tempo lo occupiamo a fare azioni che manco ci saremo sognati di fare nei peggiori incubi: ripetitive e senza senso, fatte perché si dovevano fare.

La pensione rappresenta quindi un traguardo. Un segno sul calendario dove ci mettiamo a fare un bilancio della nostra vita e apriamo un nuovo fascicolo sul domani.
La domanda che mi pongo allora è: ma perché aspettare quel segno per pensare al presente. No, non avete letto male, ho scritto proprio "pensare al presente", non "pensare al domani".
Se inizio a fare ora delle cose che mi piacciono e mi gratificano, lo smettere di timbrare il cartellino sarà un evento relativamente insignificante.
Perché? Perché non mi servirà re-inventarmi la vita, le azioni quotidiane, se già lo faccio in questo momento. 
Certo, le forze verranno meno. La vecchiaia rappresenta questo. Ma avrò modo di avvisare in modo meno brusco il cambiamento; è come passare dal torso nudo dell'estate ai piumini anti-vento dell'inverno con le stagioni. Il cambiamento non è traumatico se fatto in modo graduale, non trovate? Lo stesso vale con il "dilemma pensione".

Alla fine dell'ora di terapia, arriva la domanda da parte di chi mi sta davanti: "E allora dottore, che cosa posso fare?"
Vorrei poter dare una soluzione. Ma non esiste un unico rimedio. Sicuramente esistono MOLTE soluzioni, ma al momento non si vedono. O si intravedono, in parte. Occorre coraggio per attuarle, e tanta consapevolezza.
In quei momenti evito di dare suggerimenti, ma mi limito a stare accanto alla persona. Sapere che non si è soli è già di grosso aiuto. Sapere poi che un "coniglio dal cilindro" lo tireremo fuori è un ulteriore passo dettato dalla speranza. E la speranza aiuta più di tanti consigli.
E la mia speranza, ora, è quella - evocata in tutti i miei scritti - di aver aiutato qualcuno a  tirarsi su di morale, di aver fatto accendere una lampadina in lui o in lei, che possa esser costruttivo per la pianificazione del presente. E quindi anche del domani.

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