Ansia, delusione, apatia: il peso emotivo di una generazione in attesa
Quando un ragazzo o una ragazza si scontra ripetutamente con porte chiuse, la reazione più comune non è solo lo sconforto. È qualcosa di più profondo e silenzioso: si inizia a dubitare di se stessi. "Forse non valgo abbastanza", "forse ho sbagliato tutto", "forse sto perdendo tempo". Pensieri che rimbalzano nella mente ogni giorno, alimentando un senso di colpa costante. In fondo, la società ripete continuamente che “chi vuole ce la fa”, e quando non si riesce, è facile credere che la colpa sia propria.
Accanto alla fatica di cercare lavoro, spesso senza risposte o con offerte svilenti, si sviluppano stati emotivi complessi: l’ansia da prestazione, che paralizza ogni iniziativa; la frustrazione, che cresce ogni volta che si riceve un “no” o, peggio, nessuna risposta; e infine la paura del futuro, che diventa una presenza quotidiana. Questa tensione continua porta molti giovani a cadere nell’apatia, nella procrastinazione cronica, in un circolo vizioso in cui più ci si ferma, più ci si sente bloccati.
Ma c’è un’altra ferita invisibile, spesso taciuta, che amplifica tutto questo: il confronto con le generazioni precedenti, in particolare con i propri genitori.
“Alla tua età io avevo già…”: il confronto che fa male
Per molti ragazzi, parlare con i genitori del proprio percorso lavorativo è fonte di ulteriore stress. Non perché manchi l’amore o la volontà di comprensione, ma perché spesso manca la piena consapevolezza del cambiamento che il mondo del lavoro ha subito negli ultimi decenni.
Chi è cresciuto tra gli anni '70 e '90 ha vissuto un’epoca diversa: bastava un diploma per trovare un impiego stabile, l’università era un “valore aggiunto”, e spesso il primo lavoro arrivava prima dei 25 anni. La crescita economica, anche se non sempre lineare, permetteva di costruire una vita adulta con tempi tutto sommato prevedibili: lavoro, casa, famiglia.
Oggi è tutto diverso. Un giovane può studiare fino a 27 anni, fare tirocini gratuiti, accumulare stage senza sbocchi, e a 30 trovarsi ancora a casa, senza un reddito fisso e senza prospettive. Eppure, quando si confronta con chi è venuto prima, la narrazione è spesso questa: “alla tua età io avevo già un lavoro, due figli e il mutuo”. Una frase che, anche se detta senza cattiveria, può pesare come un macigno.
Il confronto con i genitori – che magari hanno fatto sacrifici veri per permettere ai figli di studiare – genera un senso di inadeguatezza feroce. I giovani si sentono come se stessero deludendo le aspettative, come se il loro tempo fosse “sprecato”. E questo sentimento, se non elaborato, può trasformarsi in un dolore sordo, difficile da raccontare. Si inizia a nascondere le difficoltà, a evitare certe conversazioni, a costruire una maschera di “tutto bene” che diventa sempre più pesante da portare.
Frustrazione che logora, invisibilità che pesa
Non c’è nulla di più doloroso per un giovane che sentirsi invisibile. Non riconosciuto, non valorizzato. L’idea di “non esistere davvero” perché non si ha ancora un lavoro, un contratto, un ruolo preciso nella società. Il lavoro, in fondo, è ancora uno dei principali strumenti di identità in Italia. Chi non lavora, spesso si sente – o viene percepito – come “non ancora adulto”, anche a trent’anni passati.
Questa sensazione si trasforma in frustrazione cronica, un’emozione corrosiva che mina l’autostima, spegne la motivazione e rende difficile anche solo alzarsi la mattina con uno scopo. E quando ogni giorno sembra uguale al precedente, quando ogni candidatura sembra finire nel vuoto, la voglia di provarci ancora si affievolisce. L’apatia prende il sopravvento. In molti casi si sviluppano vere e proprie forme di disagio psicologico: disturbi d’ansia, depressione lieve o moderata, dipendenza da social o videogiochi come forma di fuga dalla realtà.
Serve più ascolto e meno giudizio
Per uscire da questa situazione non basta dire ai giovani di “darsi da fare”. Anzi, quella retorica del “chi si impegna ce la fa” rischia di essere dannosa, perché non tiene conto della complessità del contesto. Servono spazi di ascolto, relazioni che accolgano la fatica senza giudicare. E serve che anche i genitori, per quanto difficile possa essere, riconoscano che il mondo in cui sono cresciuti non è lo stesso in cui oggi si muovono i loro figli.
Aiutare un giovane non significa solo dargli consigli pratici o pagargli un corso in più. Significa esserci, comprendere le sue emozioni, accompagnarlo nella ricostruzione della fiducia in sé stesso. Perché la frustrazione, l’ansia, il senso di fallimento non sono segni di debolezza, ma reazioni umane a un sistema che spesso lascia le persone sole proprio nel momento in cui avrebbero più bisogno di essere viste.
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento