Buongiorno Daniela, provo a risponderle con molta sincerità e rispetto, perché da quello che scrive si sente tutta la sua esasperazione, ma anche una grande paura per sua figlia.Lei è stanca, probabilmente sfinita da anni di tensione continua, di allarmi, di notti in cui si vive con il fiato sospeso. È comprensibile che a un certo punto una madre pensi: “Così non si può più andare avanti”. Questo non la rende cattiva, la rende umana. Detto questo, è importante fermarsi su alcuni punti delicati. L’autolesionismo e le minacce di farsi del male non sono capricci né ricatti, anche quando sembrano “solo parole”. Spesso sono l’unico modo che un ragazzo o una ragazza ha per dire che sta male e non riesce a reggere quello che sente dentro. Minimizzarle, anche per disperazione, rischia di aumentare il pericolo invece che ridurlo.
Capisco il suo desiderio di allontanarla da quest’uomo. Da madre è un impulso naturale e comprensibile. Ma una comunità non può e non deve essere usata come una punizione o come un modo per “farle capire la lezione”. Le comunità funzionano quando c’è un progetto terapeutico chiaro e condiviso, non quando diventano un braccio di ferro. Forzarla, in questo momento, potrebbe farle vivere l’allontanamento come un abbandono o una violenza, rafforzando proprio il legame con quella persona.
La psicologa che segue sua figlia, dicendo che “non ci sono gli estremi”, probabilmente non sta minimizzando la situazione, ma valutando che al momento sua figlia non è clinicamente contenibile in modo coatto. Questo non significa che il problema non esista, ma che va affrontato in un altro modo, più lento e più faticoso.
Lei chiede se, come madre, può fare richiesta. Dal punto di vista emotivo la capisco profondamente. Dal punto di vista psicologico, però, la domanda forse più importante è un’altra: che cosa sta chiedendo davvero sua figlia con questi comportamenti? Spesso relazioni così sbilanciate diventano un rifugio quando non ci si sente visti, forti, degni, capaci di stare nel mondo. In tutto questo, c’è anche lei. Una mamma che dice “non ho più una vita” sta lanciando un segnale altrettanto importante. Anche lei ha bisogno di sostegno, di uno spazio suo, magari di un percorso di supporto genitoriale. Non per essere giudicata, ma per non crollare.
La fermezza è necessaria, sì. Ma deve andare insieme alla protezione, non alla minaccia. I confini servono, ma non attraverso la paura. Se possibile, chieda un confronto più ampio: neuropsichiatria infantile, servizi territoriali, un lavoro di rete più strutturato. E soprattutto non resti sola.
Non è una battaglia contro sua figlia. È una battaglia per sua figlia. E per farla, lei non dovrebbe essere lasciata sola a combattere.
Un caro saluto