CIAO COME STAI? Un approccio psicosomatico al simbolo

“Ciao! Come stai?”. Quando qualcuno ci pone questa domanda rapidamente, dentro di noi, facciamo un bilancio della nostra condizione fisica, emotiva e relazionale, rispondendo in modo che il nostro linguaggio possa corrispondere a ciò che viviamo in quel momento della nostra vita.

A volte la nostra attenzione sarà maggiormente concentrata sulla condizione fisica, ad esempio se abbiamo qualche disturbo, altre sui nostri sentimenti, se ci troviamo ad affrontare una situazione emotivamente complessa.

Rimane il fatto che non possiamo nettamente scindere la nostra esperienza corporea dalla nostra esperienza psichica e relazionale: sono inevitabilmente interconnesse tra di loro, nella loro complessità.

Parlare di “esperienza” implica necessariamente viverla nel proprio corpo e averne una rappresentazione mentale, perché se è nel corpo che hanno sede e vivono le emozioni, è nella mente che prendono forma i sentimenti. Le emozioni sono fenomeni biologici (quando proviamo un’emozione sostanze chimiche, prodotte dalle nostre ghiandole, vengono rilasciate nel circolo sanguigno), innati, che favoriscono la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente. I sentimenti o affetti sono l’elaborazione psichica del vissuto soggettivo di un’esperienza, per cui possiamo pensarla e comunicarla agli altri.

Senza un corpo, un sistema nervoso centrale e periferico, che raccoglie ed elabora le informazioni che arrivano dall’interno del nostro corpo e dall’ambiente esterno, non avremmo una psiche. È dal corpo stesso che, fin dai primissimi stadi di vita, la mente prende la sua forma e si struttura in funzione delle esperienze relazionali ed ambientali ricevute. L’”Io”, la rappresentazione psichica di chi io sono, come mi determino e come mi muovo nell’ambiente, nasce dalla primaria relazione con la madre che abbracciandoci, accarezzandoci e manipolandoci durante l’accudimento, ci permettere di comprendere i nostri confini corporei, fornendo l’accesso alla rappresentazione dei nostri confini psichici.

Corpo e psiche sono inevitabilmente connessi. Pertanto non può esserci una condizione che sia o solo fisica o solo psichica, ma tutto diventa, inesorabilmente un’esperienza psicosomatica.

Parlare di psicosomatica significa entrare in contatto con la complessità dell’essere umano: della sua esperienza corporea, relazionale, affettiva, ambientale.

Cos’è allora un sintomo psicosomatico?

Spesso si ritiene che il sintomo psicosomatico sia qualcosa che non esiste nella realtà, ma solo nella mente della persona. Non trovando cause traumatiche od organiche del malfunzionamento somatico si utilizza il termine “ideopatico” o “psicosomatico” (quest’ultimo usato in maniera impropria) riferito ad un disturbo di cui la medicina non riesce a trovare l’origine. È come se il disturbo nascesse dalle “idee” e quindi non fosse reale. Come se il paziente non soffrisse realmente, come se non ci fossero reali danni organici o funzionali, e non ci possa essere cura adatta alla sua risoluzione.

Tale prospettiva deriva, principalmente, da due assunti che hanno influenzato profondamente la cultura occidentale: la separazione cartesiana tra corpo e mente e la logica aristotelica, nei principi di causa-effetto e di uguaglianza e non contraddizione.

Secondo l’affermazione cartesiana, “Cogito ergo sum”, l’essere umano esiste in quanto è un essere pensante, dimenticando che se non avessimo un corpo non esisteremmo, non saremmo, non penseremmo e non avremmo una psiche, intesa come la capacità di avere produzioni mentali, per cui necessitiamo di un cervello ed un sistema nervoso. Per la logica aristotelica ogni effetto deve necessariamente avere una causa che lo precede e ogni cosa può essere solo quello che è e non il suo contrario. Principi sicuramente validi nella realtà cosciente che viviamo quotidianamente, ma applicabili solo al mondo della razionalità, non al mondo dell’emotività, dell’intuizione e del sentimento. Mondi, questi ultimi, che determinano la costruzione della psiche fin dai primissimi attimi di vita, influenzano la strutturazione psichica dell’individuo, la costruzione di mappe neurali e il suo benessere corporeo.

Nei primi momenti di vita il cervello del bambino è pienamente maturo nelle sue parti che controllano l’attività fisiologica, fondamentali per la sopravvivenza, e nelle parti che elaborano gli stati emotivi, utili sia alla sopravvivenza, sia per imparare a destreggiarsi nel complesso mondo relazionale che li circonda. Ancora immature sono le parti più evolute del cervello, quali la neocorteccia, collocata nella parte frontale alta del capo, che ha lo scopo di sintetizzare ed integrare tutte le informazioni che arrivano dalle altre parti del cervello, dal resto del corpo e dall’ambiente esterno. Quest’opera di sintesi consente di fornire senso e significato alla nostra esperienza e la costruzione di memorie autobiografiche, integrate sia di ricordi oggettivi, sia di vissuti soggettivi dell’esperienza. In quest’area frontale gli orientali, pur non avendo a disposizione gli strumenti che abbiamo noi oggi, avevano collocato il “terzo occhio”, l’occhio della piena consapevolezza di sé. La loro saggezza intuitiva aveva implicitamente individuato la sede organica che ha la funzione di sintetizzare ed organizzare tutte le informazioni che riguardano la conoscenza di sé.

La nostra esperienza nel mondo è innanzitutto esperienza relazionale ed affettiva, non razionale e cognitiva. Quando ci muoviamo nel mondo e facciamo esperienza il nostro sistema risponde primariamente a livello emotivo, proprio perché le emozioni sono funzioni fisiologiche fondamentali per la sopravvivenza. Tant’è vero che tutti gli animali, in particolare i mammiferi, condividono l’espressività delle emozioni primarie, utili alla comunicazione, alla relazione e all’adattamento all’ambiente. Solo in un secondo momento diveniamo capaci di pensare l’emozione, facendola divenire un sentimento, e di inserirla in una cornice cognitiva di senso, potendola narrare come parte della nostra storia.

Ma cosa succede quando un’emozione, tendenzialmente negativa, è talmente intensa da non poter essere pensata, perché altrimenti creerebbe uno stato emotivo intollerabile? Oppure se nelle relazioni primarie non ci è stata trasmessa la capacità di pensare noi stessi e i nostri stati interni, per poi poter fornire loro significato e poterli raccontare?

Quando siamo invasi da emozioni potenzialmente disturbanti o non abbiamo la possibilità di pensare ed elaborare il significato di ciò che viviamo soggettivamente in un’esperienza, il corpo continua comunque a svolgere il suo compito: vengono rilasciate sostanze chimiche nel nostro organismo e il sistema nervoso procederà con l’attivazione necessaria a garantire uno stato fisiologico il più possibile adatto a rispondere alle condizioni che ci si presentano. Il tutto avviene implicitamente, o se preferiamo inconsciamente, nel corpo: le sostanze chimiche rilasciate continueranno a circolare e l’attivazione fisiologica continuerà a permanere. Le aree del cervello deputate alla sintesi non potranno dare senso a ciò che sta accadendo, perché accedere coscientemente a tali vissuti significherebbe venire a contatto con sentimenti dolorosi da affrontare. Allora tutto rimane relegato nel corpo, in esso cade, inaccessibile alla coscienza. Il corpo, tuttavia, non è fatto per sostenere lunghi periodi intense attivazioni, ne conseguiranno dei malfunzionamenti, dei danni a livello funzionale o, alla lunga e nel peggiore dei casi, danni strutturali.

Il sintomo psicosomatico esiste ed è reale e come tale va curato dalla medicina, senza tuttavia dimenticare di indagare quale possa essere la complessità di fattori che hanno inciso sulla sua comparsa, tenendo presente che il corpo non risponde alle leggi causa-effetto o della logica aristotelica, ma parla il linguaggio degli affetti e della complessità.

Come mai un danno su un organo piuttosto che un altro?

In questo la biografia della persona indicherà il senso profondo della ricaduta su una funzione corporea oppure sull’altra. Sarà la ricostruzione della propria anamnesi, del ricordo di sé, e di tutte le emozioni che sono rimaste incarnate senza poter essere pensate, integrate, raccontate, che fornirà il significato della ricaduta su un organo e la sua funzione, piuttosto che un altro. Il sintomo del corpo dice ciò che non è pensabile, è il racconto che fa la persona di sé attraverso un linguaggio sottile, che richiede cura e intuizione per coglierlo.

Un sintomo, qualsiasi sintomo, è quindi inevitabilmente psicosomatico e non è generato da idee, fittizio ed inesistente. È la manifestazione reale di una biografia incarnata e la storia di sé, raccontata attraverso il linguaggio degli affetti, che hanno preso forma nella propria struttura e nel proprio funzionamento.

Baldoni Franco “La prospettiva psicosomatica”, Il Mulino, 2010

Frigoli Diego (a cura di) “Psicosomatica e simbolo. Saggi di ecobiopsicologia”, Armando Editore, 2010

Frigoli Diego, Biava P.M., Laszlo E. “Dal segno al simbolo. Il manifesto del nuovo paradigma in medicina”, Paolo Emilio Persiani edizioni, 2014

Pusceddu Maria “Gioco di specchi, riflessioni tra natura e psiche”, Paolo Emilio Persiani editore, 2010

Pusceddu Maria “Il corpo racconta. Psicosomatica e archetipo”, Paolo Emilio Persiani edizioni, 2013

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