E se fosse andata così?

Partiamo dalla nascita. SE mia mamma avesse aspettato qualche ora in più – o qualche ora in meno – per farmi nascere, dicendo al medico di anticipare o posticipare la mia venuta al mondo, avrei avuto un compleanno normale come gran parte delle persone.

Invece no

I primi dieci anni della mia vita li ho passati festeggiando un compleanno “in prestito”, una data non mia – ma che mi faceva sentire orgoglioso (primo marzo! Primo! Il numero uno. Nella mente di un bambino, quel numero rappresenta la perfezione, il migliore di tutti!). Poi l’amara confessione di mia madre che mi rivelò la triste realtà. 29 febbraio. Un giorno che capita una volta ogni quattro anni. Lo festeggi sempre, certo, il compleanno, ma NON tutti gli anni. Come gli altri bambini. E cosa fai in quegli anni che non c’è il tuo giorno?

Niente

Non festeggi. Parenti e amici ti fanno gli auguri, ma te li fanno da indecisi, perché non sanno manco loro se farteli. Nel dubbio, però, meglio essere diplomatici. E ti arrivavano. Assieme ai regali. Ma dentro di te sai che era un atto “di comodo”. E chissà quanti avranno pensato: “…ma quel ragazzino, alla fine, quando gli fa gli anni?”

Situazione strana. Che impari a conviverci, poi, con le stranezze. Tanto che la vita poi cosa ti porta a fare? Un mestiere che ha dello studio della stranezza il suo piatto forte: psicologia.

Ma io non lo sapevo

Volevo solo diventare scienziato! Ero curioso come un gatto. Volevo conoscere, sapere, informarmi. Volevo l’enciclopedia, non il pallone, da piccolo! Ma i miei non potevano permettersela.

E se avessero potuto?

Avrei soddisfatto un bisogno da bambino, e forse mi sarei anche stancato. Allora avrei scelto senza pensarci troppo una scuola superiore che fosse in linea coi voti che avevo alle scuole medie: un Liceo. C’era di mezzo l’adolescenza però… Brutto periodo, dove metti in discussione tutto. Compresa anche la scuola.

E molto probabilmente l’avrei lasciata. Niente Liceo, troppe robe teoriche, troppe ore di studio, troppo. Avevo voglia di uscire, di divertirmi, di fare bisboccia nella compagnia coi ragazzi del bar del quartiere.

Mettiamo che l’insofferenza l’avrei maturata precocemente, e già in seconda Liceo sarebbe giunta – come da previsione – la bocciatura; bocciatura, che fino a quando è una, i genitori me l’avrebbero perdonata. Due no.

La seconda sarebbe quasi certamente arrivata l’anno dopo. Ragazzo svogliato, non ha idee chiare sul cosa fare nella vita, sempre per i fatti suoi o che arriva in aula coi postumi della sera prima.

Fortuna che negli anni ’90 gli psicologi erano mosche bianche, altrimenti sarei finito diretto da uno di loro. Mia madre mi minacciava – nella realtà – dicendomi che mi avrebbe sbattuto in collegio a Venezia se avessi continuato a fare l’irrispettoso. Sentendo quelle parole mi fermavo. E meno male!

E quindi, che avrei combinato? Quasi maggiorenne e con un diploma di scuola media inferiore in tasca. Gli anni passati al Liceo, senza aver finito il percorso, non sarebbero stati conteggiati. Mi sarei messo a fare qualcosa, sicuro. Erano anni floridi in Veneto, quelli. Il lavoro non mancava, e ce n’era per tutti, anche per chi arrivava da altre regioni!

Ma io, cosa avrei voluto fare? Da bambino avevo soddisfatto tutte le mie curiosità, e non ci sarebbe stato nulla che mi avesse attratto più di altre cose. Certo, ero bravo in disegno, ma avevo fatto una scuola che con carta e pennino non ci lavoravi, non ti formavi… Avessi fatto il Liceo artistico o Grafica, un professionale (come avvenne nella realtà) avrei avuto qualcosa in mano. Ora no. In teoria, il Liceo, se concluso, avrebbe potuto aprirmi le strade per qualche Università: Legge, Medicina, Economia… Ingegneria! Ma nessuna di queste mi interessava davvero.

Quindi?

Avrei dovuto imitare un mestiere che vedevo in famiglia. Parrucchiere (ma non mi piaceva) oppure operaio. Ecco, l’operaio fa un po’ di tutto: sta in un posto dove assembla “cose”, saldando o avvitando – manualità che vedevo fare da mio padre – oppure spostando carrelli pieni di “cose”. Avrei sicuramente scelto quella strada, in una delle tante ditte della zona industriale che distava solo pochi minuti di bicicletta da casa. Si inizia come apprendista: tante ore, pagato quel giusto, portafoglio pieno già prima dei 18 anni, al punto che ti paghi da solo la patente dell’auto. A 20 anni sarei stato capace di aver già cambiato un paio di auto e vuoi anche aver accumulato un modesto conto in banca. Certo, lavorando probabilmente su turni e cinque giorni alla settimana. Sei, ogni tanto, giusto per fare qualche straordinario e togliermi qualche altro sfizio. Tipo una giacca in pelle, scarpe firmate, cose così.

Avrei imitato pari pari mio padre: lavoro a tempo indeterminato, ferie in agosto, domeniche a casa, settimana a casa sotto Natale e Capodanno.

Tutto qua?

Eh no. Manca la dolce metà. In compagnia avrei sicuramente approfondito la conoscenza con qualche ragazza. Magari dopo averla conosciuta in una discoteca, tappa obbligata del venerdì o del sabato sera. Sei vestito bene, hai un lavoro stabile, hai una bella macchina… Insomma, hai tutte le caratteristiche per essere “un buon partito”. Non sarei stato un figone, un tipo, quello no, ma ero carino, dai. Ero timido quel tanto, ma mi sarei sbloccato, vedendo gli altri amici come facevano e provando a buttarmi anch’io.

Conosciuta questa ragazza, probabilmente anche lei a vent’anni avrebbe avuto un lavoro. E cosa fai? Ci vai a letto, certo, ma imiti i genitori: la sposi. Bello. Classico matrimonio senza “wedding planner” di turno, ma con una stupenda Villa veneta dietro di te. Una mangiata colossale, perché così fan tutti. E se mangi, puoi stare senza bere? No di certo. Prosecco, merlot, pinot a fiumi. Abito bianco lei, in completo io. Grigio? Canna di fucile? Di sicuro bello rasato, niente barba. Capelli corti, ma non rasato.

Ovviamente il matrimonio ci sarebbe stato – quasi dimenticavo! – dopo l’anno di naja, obbligatoria in quegli anni. Il titolare del lavoro ti avrebbe tenuto il posto, e ti avrebbe anche fatto un regalo per il matrimonio, oltre a qualche giorno in più di permesso per il viaggio di Nozze. Che avremo fatto in località classiche, come Firenze o Roma.

Lavoro, moglie… cosa sarebbe successo dopo? Si, d’accordo: il mutuo per la casa. Ma sarebbe arrivato il primo figlio (o figlia?). Vai di battesimo, di pannolini, di regali. Sperando che almeno lui/lei fosse nato in un giorno “normale”, come il 12 aprile, il 16 di febbraio, il 24 di giugno… Le vacanze sempre in agosto, con il cucciolo e la moglie. E i suoceri. A Natale sarebbe arrivato… Babbo Natale. La neve di dicembre, la Messa a mezzanotte. E Capodanno non più con gli amici, ma con i parenti e il piccolo.

Meglio se c’è qualche zio o zia, così i bimbi stanno per conto loro.

Ma vuoi stare solo in tre in famiglia? Ma no. Facciamo l’amore, non tiriamoci indietro, tanto il piccolo dorme… Ed ecco che la dolce metà si scopre nuovamente incinta. Altro battesimo, altri pannolini, altri regali, Babbo Natale obbligato a fare sempre più straordinari. Ma guai, guai a dirlo ai piccoli: Babbo che porta i doni la sera del 24 dicembre esiste! Shhh! Non rivelate loro la innocente bugia… Lasciamoli sognare qualche anno ancora.

I trent’anni sarebbero arrivati di colpo. Il 2000 festeggiato che sembra ieri. Cambio di secolo. Facciamo qualcosa d’importante! E cosa? Un altro pupo, ti dice lei. Puoi tirarti indietro? Vorresti evitare, tanto due ragazzini sotto lo stesso tetto bastano, ma alla fine cedi. Tanto, avete la fortuna di avere entrambi i genitori e ai bimbi ci stanno dietro anche loro, che sono la gioia dei nonni!

Ora siete una famiglia dal numero perfetto: tre. Figli. Due maschi e una femmina. Cosa potrebbe andare storto, proprio ora, che hai – avete – nemmeno un terzo di secolo di vita e quindi la possibilità reale di vedere l’età adulta e poi anziana in autonomia. A cinquant’anni, secondo il vostro programma familiare, il mutuo sarà estinto, e la prole sicuramente avrà fatto come te, come tuo padre, come tuo nonno: a vent’anni saranno in procinto di lasciare casa. E se ancora uno di loro fosse ancora sul “libro paga” tuo e di tua moglie, che importa? Pochi anni e s’involerebbe anche lui.

Cosa, cosa, potrebbe andare storto in quella regione più turistica d’Italia, ricca, con le fabbriche che lavorano 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno, nel paese tra i più invidiati del mondo?

Cosa potrebbe andare male?” – ti chiedi ogni tanto, ma il pensiero sparisce subito.

Tutto

Ma non lo potevi sapere. Non sei Gesù. Non puoi prevedere il futuro e ti devi affidare alla scienza della probabilità per cercare di arginare l’incertezza del domani.

Ti svegli una mattina di gennaio, con le ferie che stanno per finire, e col pensiero che questa domenica dovrai andare a Jesolo per cercare un appartamento in affitto per tre settimane in agosto. Come fai da una decina di anni da questa parte e come hai visto fare per altrettanti decenni da tuo padre.

Ma tua moglie ti dà il buongiorno – si fa per dire – con un laconico: “Ti devo parlare”.

Ti aspetti che ci sia stato un rincaro di una bolletta, che ti debba riferire di una tredicesima mai arrivata, del dentista per la piccola.

No. Magari uscisse con questo argomento.

“Non ti amo più. Ho già deciso. I miei li chiamo tra poco. Torno da loro coi figli. Tieni tu la casa”

Ti guardi attorno. La neve, che ha iniziato a scendere la notte passata, ha già imbiancato il giardino condominiale e le vostre macchine sono cumuli indifferenziati. Tutte uguali.

Ma non te ne potrebbe importare di meno. In un istante ti svegli dal torpore, diventi subito lucido, cerchi di mettere insieme quelle parole. Non ci credi. Sta scherzando. Cosa sta dicendo? Abbiamo fatto l’amore due giorni fa, e non ho notato nulla di strano. Dai, sta scherzando per mettermi alla prova. Non ne so che tipo di prova, ma avrà le sue cose, le donne non le conosci mai abbastanza!

Invece no. Non scherza. Ha gli occhi rossi, ma non piange. È determinata. Chiama davvero i suoi, e li avvisa. Lo fa in vestaglia, sul terrazzo, fuori, che nevica, perché non vuole che tu e i piccoli sentano.

Cerchi di farla tornare sulla scelta presa ma più ti avvicini più scappa.

Niente. Anzi, ti punta l’indice davanti e ti informa che se insisti chiama il 112 o si mette ad urlare.

Resti così. Il cuore sembra si sia fermato. Davanti a te scorrono le scene di tutti gli anni passati assieme come in un film. Ripensi a cosa puoi averle fatto. Abbassi gli occhi, ripensando ad una scappatella di otto anni fa, con la vecchia compagna delle medie rivista durante una rimpatriata. Ma è roba vecchia, durata 4, 5 incontri fugaci e basta… Lei non era nemmeno venuto a saperlo. O forse sì? Ma che senso ha dirtelo ora? I figli… Due sono alle elementari, l’altro alle medie. Anni fa erano in due, uno alle elementari. Era meglio se te l’avesse detto prima, dai. Allora no, non è venuta a saperlo.

Quindi… ma stai a vedere che è lei ad avere un altro! Ha cambiato lavoro, non è più in magazzino, l’hanno spostata in ufficio da un anno e… stai a vedere che l’ambiente nuovo le ha fatto conoscere il laureato figo di turno. È una bella donna, sensuale, un po’ civetta, ma è tua. No, non può. Allora vai giù diretto, le chiedi chi sia l’altro. Ti guarda dritto negli occhi rispondendoti che non c’è nessun altro. Non ti ama più. Fine delle discussioni.

La sera arriva con la porta che si chiude e quel “clac!” che ti porterai dentro per tutta la vita. Ti si prospettava una giornata di viaggio sotto la neve a vedere il mare d’inverno: ti ritrovi a guardare l’orologio e accorgerti che sono le 5 del pomeriggio ed è già buio. Fuori e dentro di te.

Chiami i tuoi prima ancora di mezzogiorno, chiami tua sorella, li aggiorni… Anche loro non ci credono, e chiamano lei, ma appena vede il loro numero mette giù. Chiamano i suoceri, ma anche questi sanno poco, dicono, che la figlia non vuole parlare con loro, che si sta sistemando con i tre piccoli nella stanzetta dove dormiva lei prima che si sposasse. Niente da fare. Aspetti che richiamino i tuoi per avere novità, ma non arriva nessuna bella notizia. Anzi. Un messaggio di lei ti avvisa di smetterla di cercarla, che se continui andrà in Questura la sera stessa e non ne ha voglia, nevica e i bambini hanno bisogno di lei.

Quel telefono sempre in mano… Lo chiami per sentire i tuoi amici, ma sono sposati tutti. Si, ne hai uno single, ma quello è per aria per via di un esame di stato che deve dare e non ha testa per sentirti ora. Magari domani, ma oggi no, guarda, davvero, non è per cattiveria. Amiche? Ma quali, che le hai perse tutte. O quasi. Ma mai più vai a chiamare quella che ti faceva il filo anni fa che ora è anche lei felicemente sposata (dice). Ma incinta. No, non puoi telefonarle ora, a ridosso della Befana, dai. Cosa capirebbe suo marito?

Vicino al mobile delle stoviglie in cucina c’è un cassetto con le medicine: trovi un calmante, prescritto dal dottore anni fa quando stai per saltare in aria per via dei turni di notte, ed eri diventato tanto, tanto nervoso. Boccetta scaduta, ma chi se ne frega: è mezza piena. Quante gocce? E chi lo sa. Venti, trenta… vediamo. Se non prendi sonno ne prenderai altre.

Arancia piccante. Che gusto schifoso. Brucia in gola da far schifo. Però intanto il cervello avverte il colpo. La testa inizia a girarti, ti vengono meno le forze. Forse è meglio andare verso il letto. Ci arrivi e ti ci getti come un sacco di patate.

“Buona” notte, mondo – ricordi solo queste parole di quella bianca serata.

Gesù Cristo lo misero in Croce che aveva trentatré anni, così ci dice il Vangelo. E tu, come Lui, a quell’età hai perso gli affetti più importanti: la donna, i figli e in parte la casa. Oltre che buona parte del fegato.

Dopo un anno da quel disastroso risveglio ancora non sai i motivi della separazione, che hai firmato poche ore fa. Il divorzio può aspettare qualche mese, ma arriverà anche quello. I due figli maschi ti odiano, la femmina abbassa lo sguardo ogni volta che ti vede. A nulla valgono le tue richieste di capire cosa avessi fatto di male. O se mamma avesse portato a casa qualche “amico” a casa dei nonni.

La piccola alla fine cede: nessun amico, e mamma di te non parla mai. Non vuole nemmeno che si dica il tuo nome in casa o a scuola.

Meno male che c’è il lavoro, ti dici mentre l’ascolti.

Non ti accorgi che ti è arrivato un messaggio da parte del sindacalista – lo leggerai mentre stai rientrando a casa dopo esser stato a vedere i figli dai nonni paterni – e ti dice che domattina dalle 9.00 alle 10.00 ci sarà una riunione con tutti quelli della produzione. Importante esserci, argomento serio che il sindacalista, però, non accenna minimamente nel messaggio.

“Ma cosa vuoi che sia…” – ti dici e ti ripeti – “…solite robe da sindacalisti. La ditta va bene, ha i conti in attivo, anzi, si lavora più di prima…”

No. Non va bene.

La ditta va così bene che i titolari hanno deciso di venderla. A dei tedeschi. Accordo preso in gran segreto sei mesi fa. I sindacati sapevano tutto, ma hanno preferito – in accordo con la direzione – di non dire nulla prima del tempo, altrimenti ci sarebbe stata una mobilitazione generale che avrebbe costretto il Governo o la Regione a intervenire, rompere le balle e far saltare l’accordo.

I tedeschi si erano fatti due conti: troppo personale. Si può ottenere lo stesso risultato – economico – con metà gente nei reparti. A loro non interessa di famiglie, di figli, di divorzi: siete in 300 e l’accordo preso e controfirmato da tutte le parti dice che entro due mesi dovrete essere in 150. Punto.

A fine riunione tavoli e sedie volano. Ma c’è poco da fare. Così è deciso. Chi sta? Chi va? Verrete chiamati nelle prossime ore. Chi non sentirà nessun avviso entro le 48 ore è libero di andare ad accendere un cero a Monte Berico.

E tu, con la convinzione per anni di esser nato il PRIMO marzo, primo fra tutti, il destino si concretizza con parole a te familiari, appunto: sei il primo. A esser lasciato a casa. Se vuoi rifiutarti, preparati un buon avvocato, ben sapendo che la controparte avrà avvocati migliori del tuo.

Di legali ne hai piene le scatole, reduce dalla firma in Tribunale di un giorno fa. Quindi accetti le condizioni. Sei relativamente giovane, la buon’uscita ti permetterà di non finire sotto ad un ponte ed avere tempo necessario per ricollocarti.

“Ah, ma aspetta…” – ti dice il sindacalista prima che tu esca dall’ufficio del personale – “… non c’è più l’Ufficio di collocamento, e il libretto del lavoro non serve più. C’è il Centro per l’impiego ora. Fa le stesse cose del collocamento, ma ha cambiato nome e qualche pratica. Vacci subito però, che devi richiedere la disoccupazione o trovarti un nuovo lavoro. Dovrai farti fare anche un curriculum vite. Sì, un curriculum. Ti spiegheranno tutto loro, ora ho altri colleghi da vedere. In bocca al lupo…”

Peggio di così…

Il peggio c'è.

Passi due anni a sopravvivere con la cassa integrazione, a stare seduto per ore su quella poltrona dove hai visto crescere tre anime e a festeggiare tanti compleanni. Le donne ti evitano: l’aspetto peggiora di giorno in giorno, la barba che cresce ma che ti strappi dal nervoso. E poi puzzi di sigaretta, mio Dio! Che quell’acre, mischiato alla bottiglia di bianco che ti scoli ogni giorno, non è di certo bello da sentire.

I tuoi poi si sono ammalati: troppo il dolore di vedere il figlio ridotto così. Una famiglia distrutta. E danno la colpa a te, altrimenti come giustificare quel gesto di una donna che ti lascia di punto in bianco? Di sicuro hai nascosto loro qualcosa.

Sei un reietto.

Non la fai finita solo perché non ne hai il coraggio e non hai pistole a portata di mano.

Si, c’è questo internet ora, che ti permette anche di fare incontri facili. Ma c’è da fidarsi? Ma sì, tanto, cosa vuoi che accada di peggio?

Una crisi economica mondiale. Tipo quella degli anni ’30 negli Stati Uniti ma, aspetta… Ben peggiore però.

In Italia arriva tardi, ma arriva. Anche nel ricco Veneto. Le industrie chiudono con una frequenza allarmante. Imprenditori che si ammazzano così tanti da diventare notizia di routine nei telegiornali. Tanto che alla fine le direzioni editoriali rinunciano di sbattere in prima pagina questi fatti di cronaca. Anche per evitare che altri imitino il gesto.

Sul più bello che ti stai rialzando e guardandoti attorno per riprendere a lavorare, non ci sono più le fabbriche che conoscevi e che avevi programmato di risentirle, un giorno. La zona industriale attaccata a casa si spopola. Edifici pieni di vita e di puzzolenti di oli industriali lasciano il posto a scheletri di prefabbricati in rovina, con vetri rotti ed erbacce dove fino a un anno prima si parcheggiavano le auto dei dipendenti.

C’è questo internet ora. Usiamolo.

Sei single da troppo tempo. Un amico ti consiglia un sito dove fai amicizia con donne single e facili. Tentar non nuoce. Un mezzo lavoro ce l’hai, la cassa integrazione è finita, ma ogni tanto ti chiamano per un trasloco, per sostituire un infortunio. Poca roba, pochi soldi, ma meglio che niente. Soldi… che non vedi mai, visto che c’è il divorzio di mezzo e le sue uscite pecuniarie stabilite dal giudice.

Passano gli anni, e ti ritrovi seduto in quelle poltrona con accanto una donna dai lineamenti non familiari e dall’accento particolare. Avete la stessa età, ma quando siete nati da lei c’era il Comunismo, ma quello vero, non quello di Berlinguer e di Togliatti, all’italiana. Almeno non sei solo, ti dici.

I figli ti hanno perdonato, ma li vedi di rado.

La tua ex moglie la senti due volte all’anno. Sai che si è risposata e sei venuto a sapere che quando ti ha lasciato davvero non c’era nessun altro. Si era fatta condizionare da un’amica, questo sì, fresca di separazione anch’ella, e di quanto bene si stava senza uomini con il quale condividere ogni notte lo stesso letto. Il matrimoniale, da soli, è più grande, ti sembra di essere una regina. Si è sposata però poco dopo il divorzio. Ironia del destino, anche lei con un partner conosciuto su internet. “Foresto” anche lui. Vive in Puglia, nel Salento. Si è rotta le scatole delle nebbie e del baccalà alla vicentina: ha sempre amato il mare, ma il mare con la emme maiuscola, quello burrascoso, movimentato, come il Tirreno, non come quella monotonia senza fine dell’Alto Adriatico occidentale…

Nel mentre che pensi a questo, sorridi: quante volte, da sposati, ti diceva che non poteva sopportare i pontili di Jesolo, la sabbia fine che te la ritrovavi nelle scarpe anche a Natale e le imbrattava tutti i pavimenti di una casa che solo lei era costretta a pulire? Invece no, ignoravi le sue aspirazioni di andare a fare un bagno nel Mediterraneo, a prendere il solo sulle rocce di qualche località della Liguria, più vicina a casa.

E quante volte, ripensi, hai ignorato le tue aspirazioni. I tuoi sogni. E hai invece seguito i sogni e le aspirazioni di chi la vita l’aveva già passata e aveva già deciso. Avresti voluto diventare uno scienziato, da piccolo. Ma la vita ti ha portato a fare l’operaio di produzione ed il magazziniere. Lavori sempre dignitosi, questo sì, ma che niente avevano a che vedere coi tuoi sogni e le tue aspirazioni di conoscere, di capire, di andare a fondo in modo sistematico nei pensieri e nei ragionamenti.

Ti ritrovi in quella poltrona, con un fisico segnato e con tanti, troppi rimpianti, che segnano in modo indissolubile quel fisico stesso. Oltre che la mente.

Rimpianti in quel momento, ne avrei? Sarebbe potuto cominciare prima il declino?

Ragioniamoci su. Ipotizziamo.

Stai finendo le scuole elementari. Ti reputano un secchione, anche se svogliato. Non soffri i tuoi genitori e non vedi l’ora di andare fuori a giocare con gli amici, lasciando tua madre a sistemare i compiti che la maestra ti ha dato. Ironia del destino, in quinta elementare vai abitare proprio davanti alla maestra: la tua cameretta da sulla villetta dell’insegnante. Quindi non puoi nemmeno più scusarti che quel pomeriggio l’hai passato a casa a studiare – visto che dalla cucina di casa sua la maestra ti vede. E non ti ha visto in camera, ma fuori, sul vialetto, assieme agli altri ragazzini degli altri condomini.

Le scuole medie ti appassionano e le concludi nel migliore dei modi. In famiglia però sei “la pecora nera”, perché ci pensa già tua sorella a primeggiare coi voti. Sei bravo solo a disegnare. Matematica, scienze… dettagli per i tuoi genitori, zii compresi. Anzi. Hai cugini molto brillanti, di cui uno che gioca magnificamente a calcio, tanto che si dice che farà addirittura i provini per andare a giocare nel Vicenza Calcio. Tu no. Sport non ne fai e ci pensi bene dal non volerne fare, troppo preso dai libri e dagli amici. A sentir dire i tuoi familiari avrai una vita da mediocre: un “bon da niente” – dice tua madre, supportata anche dalle sorelle. Buono a fare nulla.

Ci credi così tanto in quelle parole che, concluso l’iter “Battesimo-Prima Confessione-Comunione-Cresima” abbandoni il gruppo della Chiesa e del Catechismo e inizi a frequentare il bar davanti alla Chiesa del quartiere, notoriamente frequentato da “gente che si droga”. Vedendo tua madre e tuo padre fumare (sigarette), è abbastanza logico che inizi a imitarli. E in quella compagnia fai la conoscenza degli… spinelli.

Che provi. E ti piacciono.

Caro lettore, cara lettrice, torna qualche pagina indietro per aver chiaro in che periodo mi trovo: scelgo di andare al Liceo, ma l’ambiente non mi piace; tutta quella gente vestita a modo saputella e snob. I miei, proletari, mi vestono con gli abiti dei cugini. Non ho firme e le scarpe le si compra al mercato rionale. Sono in classe con figli di notai, professori, imprenditori dell’oro…

Ecco perché quando rincaso vado al bar, dove trovo gente umile, che si diverte con poco, senza puzza sotto il naso. Fumi, sballi, vai in disco. Poi una sera un amico ti propone qualcosa di nuovo, più “forte”: eroina. Ti fa vedere come si fa in una panchina di un parchetto dietro alla Lanerossi. La puntura? Dolore che non dura nulla, e poi hai il laccio emostatico che ti anestetizza. Fatta! Visto? Sentito qualcosa? Vero che si sta da Dio?

Inizi la tua carriera nel mondo della droga vera e propria.

Il Liceo lo abbandoni dopo il secondo anno consecutivo di bocciatura. Inizi a lavorare. I soldi che guadagni li spendi in sostanze. Ogni tanto anche una “pista” di cocaina ci sta, che vuoi che sia? E se sei a corto di soldi? Inizi a rubacchiare in giro. Tanto sei intelligente – facevi il Liceo, alle medie eri uno dei primi della classe – ma pesano le parole dei tuoi: “Non farà mai nulla questo ragazzo”. È tuo padre che parla. Tua madre e le sue sorelle le danno ragione. Loro hanno fatto quel che hanno potuto, ma ha preso il peggio del padre e di lei. La colpa è solo tua, non loro.

Arriva l’anno del militare, e sei costretto a smettere con siringhe e cose varie. Poi però la naja termina, hai fatto nuove amicizie e… torni a farti.

Qui ci ricolleghiamo al racconto di qualche pagina prima: in una discoteca vai a letto con una delle ragazze che conosci, e inizi una storia seria. Scopri che anche lei ogni tanto non disdegna il cucchiaino e il limone, e vi fate assieme. A tua mamma non piace quella ragazza, ma chi se ne frega, a lei non piace nulla di te. In un momento di sballo il preservativo si rompe durante una delle tante scopate fatte il sabato sera in macchina, ma ve ne accorgete solo dopo tre mesi. Scandalo.

I tuoi non vogliono che lei interrompa, i tuoi suoceri nemmeno. Voi vorreste, ma alla fine vincono i genitori: nasce il figlio. Tu dallo stress di essere padre inizi a raddoppiare le dosi di eroina, sperperi tutto lo stipendio e lei ad un certo punto non vuole più vederti. Avevate appena iniziato a convivere. Il matrimonio forse lo avreste fatto tra qualche anno.

In un momento di lucidità, dove ti rendi che la tua vita l’hai buttata via solo per non aver creduto nelle tue potenzialità, esageri con la dose. Nessuno ti può fermare.

Ciao Bruno.

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Ma è andata così?

No

Rimarrò sempre col dubbio del cosa avessi fatto se i miei genitori avessero avuto la facoltà economica di prendermi quell’enciclopedia che tanto desideravo. Forse i quattrini li avevano, ma non ritenevano opportuno acquistarla e rivolgere le spese del bilancio familiare altrove.

Sta di fatto che quel desiderio e quel sogno di bambino l’ho realizzato. Non ho fatto il Liceo, mi sono goduto l’adolescenza frequentando un Istituto professionale dove mi sono diplomato Tecnico Grafico Pubblicitario. Sapevo di voler arrivare all’Università, sentivo dire che l’adolescenza era un periodo difficile, e decisi di passarla divertendomi. Nonostante eccellessi alle scuole Medie, non scelsi il Ginnasio per dare sfogo a una mia passione dell’epoca e comune a tanti bambini: il disegno.

Alle Superiori feci disperare genitori e insegnanti, e venni pure bocciato un anno (in terza, perché mi piaceva troppo andare a scuola e se c’era la possibilità di stare vicino a tante ragazze, meglio ancora. Feci pochissime assenze, ma in classe mi piaceva divertirmi. Arrivai al 7 in condotta e a prendere anche 3 in pagella).

E gli spinelli? La storia che i miei genitori fumassero sigarette in casa e in auto è tristemente vera (avevamo una 127 a 2 porte, con i deflettori posteriori. Per il ricambio d’aria non riuscivo a metterci nemmeno il naso, tanto era ridotta l’apertura). Altri tempi. Per imitare i miei ho iniziato con la prima sigaretta nei primi mesi delle Superiori.

Lasciai davvero la compagnia della Chiesa per frequentare quella del bar del quartiere.

Ma prima di girare il mio spinello ebbi l’intelligenza di informarmi. Mi procurai un paio di libri sull’argomento (che ho tuttora in biblioteca), redatti da professori e gente di scienza, dove illustravano i meccanismi dell’hashish e dei suoi derivati. Dopo essermi assicurato che non esisteva una dipendenza fisica alla pari dell’eroina, feci il mio primo “tiro” di spinello. A 16 anni. Venni più volte quasi obbligato a provare sostanze ben più pesanti, ma mi rifiutai categoricamente: sapevo che bastava una sola somministrazione per diventare dipendenti e prendere brutte strade.

A quanti mi chiedono ora cosa ne pensi in merito, rispondo che la THC (la marijuana) è pur sempre una sostanza psicoattiva, e come tale bisogna capire quali siano i motivi che spingono quella persona a farne uso. Lo stesso vale per le altre sostanze, come l'alcool, solo per citarne una tra le più conosciute. L'abuso di qualsiasi sostanza è sempre e comunque deleterio, ma la persona che ne abusa non va accusata, ma accolta e non giudicata.

Ma andiamo avanti: era troppo forte mia la volontà di arrivare alla Laurea. In seconda ed in quarta venni rimandato: la quarta superiore mi diedero quattro materie. A livello di probabilità ero già bocciato: invece no. Mi presentai e passai brillantemente quegli esami di riparazione.

All’Università conobbi una ragazza, con la quale passai quasi dieci anni assieme, e che volevo sposare. Feci di tutto per starle accanto – abitava a 160 km da Vicenza, in un’altra regione! Per avere un minimo di autonomia economica lavorai in diverse fabbriche e aziende, e tardai a laurearmi. Ma ci arrivai. Non mi sarei mai perdonato di aver lasciato l’Ateneo per debolezza o per rinuncia.

Mi laureai, ma quella ragazza non la pensava come me, e ci lasciammo. A 33 anni ero ancora senza un lavoro stabile, ma nel frattempo ero diventato psicologo. La tappa successiva in me era l’abilitazione alla psicoterapia, però. Gli anni passarono e trovai una mia affermazione come psicologo (del lavoro) e della formazione, ma l’amore per la clinica e la ricerca era sempre lì. In quegli anni trovai anche la compagna della mia vita, donna con la quale tuttora condivido successi e insuccessi delle nostre professioni (lei è maestra).

Arrivò anche l’abilitazione in psicoterapia, abilitazione conseguita con lode e bacio accademico. Non l’avrei mai aspettato, e non era nelle mie intenzioni: volevo solo arrivare a quel traguardo, a quell’aspirazione che sentivo sin da piccolo.

Certe scelte comportano tanti sacrifici, ma col passare degli anni mi sono reso conto che la vita è un sacrificio. Se avessi fatto quello che dicevano gli altri, avessi seguito i pareri di nonni e familiari e di seguire il conformismo (matrimonio e figli prima dei trent’anni, lavoro a tempo indeterminato a venti, patente a diciotto anni) avrei comunque pagato di persona quelle decisioni.

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Conclusioni

Il brano che avete appena letto è stato una sorta di “esercizio letterario”, scritto prima di tutto per me stesso. Quando mi venne in testa di realizzarlo, mi chiesi se sarebbe potuto tornare utile anche come strumento clinico. E mi sono risposto che valeva la pena provare. Perché ciascuno di noi è diventato quello che è perché ha seguito i suoi sogni o ha acconsentito di attuare le volontà di parenti o amici.

I cinquant’anni spesso sono forieri di momenti di riflessioni, e questo è uno di quegli attimi.

Il messaggio che sta nascosto dietro queste righe è quello che si può cambiare. A qualsiasi età. Cosa muove il cambiamento, allora? La presa di coscienza.

Essere in contatto con noi stessi è la chiave di volta che consente di adattarsi ad ogni situazione nel miglior modo possibile. Non ho mai smesso di inseguire un sogno, e ora che mi ritrovo a fare quelle cose, quelle azioni, vivere come avrei voluto da sempre, mi rendo conto che ogni secondo, ogni minuto di vita è un dono. E come tale cerco di apprezzare la bellezza degli attimi, momenti che a volte possono passare come inutili, grigi, insipidi.

La depressione che può comparire in certi periodi, vista in quest’ottica, cessa di esistere: la depressione, la tristezza, l’ansia per un pericolo che non c’è nell’immediato, a che pro dare ascolto alle molteplici manifestazioni di questi stati d’animo? La nostra esistenza è fatta sì di momenti difficili, crudi, duri, e allora perché rovinarci quegli istanti di gioia, di piacere, di leggerezza che la compongono? Abbiamo tutti il diritto di sorridere e di gioire. Di amare noi stessi quindi, e di conseguenza gli altri.

Il cambiamento è possibile, sempre, a prescindere dall’età che abbiamo e dal periodo storico. Siamo noi che decidiamo come passare e godere ogni singolo istante della vita. Il più è provare a farlo.

Fatelo anche Voi. Tentateci, per lo meno. 

Grazie per esser giunti fino a qui a leggere questo lungo contributo.

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