Cara Susanna, la tua preoccupazione è legittima e pienamente comprensibile. Come genitore, vedere tua figlia attraversare difficoltà così profonde — legate all’ansia, all’autostima e all’alimentazione — senza riuscire ad aiutarla direttamente, può essere un’esperienza dolorosa e frustrante. Hai già fatto passi importanti chiedendo supporto, cercando un confronto, restando presente, e questo va riconosciuto con rispetto. La tua domanda è molto chiara: è normale che la psicologa rifiuti un incontro a tre e chieda invece a voi genitori di andare da un altro terapeuta? La risposta breve è: sì, può essere una scelta professionale sensata, anche se apparentemente poco comprensibile. Quando un terapeuta lavora con un adolescente, è molto attento a preservare lo spazio di fiducia e sicurezza che si crea in seduta. Se l'adolescente non è pronta a parlare di un tema (come il cibo), forzarlo anche indirettamente — ad esempio con un confronto a tre — potrebbe chiudere ancora di più quella porta. La psicologa potrebbe ritenere che, al momento, un incontro con voi presenti potrebbe non essere utile o persino dannoso per il percorso. Proporre a voi genitori di parlare con uno psicologo separato serve a esplorare dinamiche familiari, comunicazione, gestione dell’ansia o del controllo — tutti fattori che possono influenzare indirettamente la situazione della ragazza. Un terapeuta esterno può offrirvi spazio, strumenti e guida, senza sovrapporsi al lavoro che la psicologa sta facendo con vostra figlia. Forse la terapeuta spera che, creando una maggiore consapevolezza da parte vostra, possiate affrontare certi argomenti in modo meno conflittuale o ansioso, e che questo cambiamento favorisca, in un secondo momento, anche un possibile dialogo a tre più sereno e costruttivo. Il comportamento alimentare che descrivi — la selezione rigida di cibi “light”, il rifiuto di zuccheri, il controllo severo — può essere un segnale importante. È preoccupante che questo aspetto venga evitato, ma non è detto che la terapeuta non stia comunque lavorandoci indirettamente, magari su controllo, ansia, immagine corporea, o senso di valore personale. Talvolta, affrontare il cibo direttamente può generare rifiuto o chiusura, mentre lavorare a monte delle emozioni e delle convinzioni che lo sostengono può essere più efficace. Tuttavia, se senti che dopo due anni non ci sono miglioramenti o che c’è un punto di stallo, hai anche il diritto di chiedere un confronto sereno e professionale con la terapeuta per comprendere meglio l’impostazione del percorso, senza invadere la privacy di tua figlia. Valuta la possibilità di un supporto psicologico anche per te (o per entrambi i genitori). Non è un atto d'accusa, ma uno strumento prezioso per gestire la frustrazione, imparare a comunicare meglio e supportare tua figlia in un momento complesso. Se nel tempo non vedi alcuna apertura o miglioramento, considera anche una seconda opinione clinica, magari con uno specialista nei disturbi alimentari adolescenziali. Cara Susanna, la tua preoccupazione è amore. La tua perplessità è legittima. E il tuo desiderio di capire cosa sia meglio fare è un segno che tua figlia ha una madre presente, attenta e coraggiosa
Dott.ssa Antonella Bellanzon